È testa a testa, secondo gli ultimi sondaggi, tra i sostenitori e i contrari all’iniziativa popolare che pianifica l’uscita definitiva della Svizzera dal nucleare. I cittadini elvetici sono chiamati oggi alle urne per esprimersi sulla proposta di iscrivere nella Costituzione il divieto di costruire nuove centrali, che già esiste dal 2011, e una nuova limitazione del periodo di attività di quelle esistenti, per pianificare così l’uscita definitiva dal nucleare.

Il quesito referendario infatti fissa la chiusura delle cinque centrali funzionanti in Svizzera, che producono circa il 40% dell’energia elettrica del Paese, al massimo entro «45 anni dopo la loro messa in esercizio». Che a conti fatti vuol dire dismettere già entro il 2017 ben tre siti (Beznau 1, attiva dal 1969, e Beznau 2 e Mühleberg che sono in esercizio dal 1972) e di seguito gli altri due: Gösgen, che produce energia atomica dal 1979, verrebbe smantellata entro il 2024, e Leibstadt, attiva dal 1984, chiuderebbe nel 2029. Se il No – che nelle ultime cinque settimane ha recuperato quasi dieci punti percentuali – vincesse, le centrali continueranno a produrre energia finché verranno considerate sicure. Fermo restando – salvo futuri dietrofront, pur sempre possibili fin quando non si modifica la Costituzione – il divieto di costruire nuove centrali deciso nella «Strategia energetica 2050» dal Consiglio federale e dal Parlamento nel 2011, dopo l’incidente nucleare di Fukushima. L’iniziativa popolare, sulla quale cantoni e cittadini discutono dal 2012, chiede anche che la politica energetica della Confederazione si prepari a questa dismissione, seguendo i principi del risparmio energetico, dell’uso efficiente dell’energia e dell’impiego delle risorse rinnovabili.

Ma contro di essa si sono schierati gli stessi Consiglio federale e Parlamento, convinti di non poter sostituire tutto l’approvvigionamento energetico da atomo con fonti rinnovabili interne al Paese in così breve tempo. Soprattutto in inverno, quando il fabbisogno aumenta e gli impianti idroelettrici producono meno. La Svizzera, secondo i sostenitori del «no», si troverebbe così a importare quantità elevate di elettricità dai Paesi limitrofi. Una soluzione, affermano, che «indebolisce la sicurezza dell’approvvigionamento e non è ecologica, dato che spesso all’estero l’energia elettrica viene prodotta in centrali a carbone». C’è poi la questione più sensibile per le famiglie, quella economica, un tasto su cui battono con più forza i contrari all’iniziativa «Uscire dal nucleare»: «Se le centrali venissero spente prematuramente – spiega una nota ufficiale – gli esercenti chiederebbero alla Confederazione, e dunque ai contribuenti, risarcimenti per investimenti che hanno attuato confidando nelle disposizioni vigenti e sulla licenza d’esercizio di durata illimitata loro concessa». Non solo: spiega la Confederazione svizzera che gli esercenti sono tenuti a versare contributi annui ai fondi per la disattivazione delle centrali e per lo smaltimento delle scorie radioattive anche se «il periodo di attività viene ridotto e nonostante la centrale non dia più reddito». Nel peggiore dei casi, «sarebbe l’ente pubblico a doverlo fare». Ecco perché il Consiglio federale invita a votare «No» e punta invece «su un abbandono graduale del nucleare in modo da poter dare il tempo alla Svizzera di ristrutturare l’approvvigionamento energetico».

Argomenti ovviamente confutati e respinti dai sostenitori dell’iniziativa che propone un programma vincolante per tenere fede a quella volontà già espressa di abbandonare l’atomo e di far cessare la produzione di sempre maggiori quantitativi di scorie. Sostituire nell’arco di 13 anni quel 40% di energia atomica con fonti rinnovabili non è impossibile, dicono. Alla Svizzera non mancando certo fonti idriche, solari, eoliche e di biomassa. «Molte aziende industriali e commerciali, tra cui innumerevoli piccole e medie imprese, partecipano già a questo futuro energetico – spiegano le associazioni che hanno portato avanti per anni questa campagna – Creano posti di lavoro e redditi in tutte le regioni del Paese».

Su queste «basi solide» chiedono il «Sì». E secondo l’ultimo sondaggio realizzato dalla Gfs.Bern è orientato a votare in favore dell’iniziativa il 48% dei cittadini che ha intenzione di recarsi alla urne (il 51% degli aventi diritto). Per il «No» è invece il 46% degli intervistati, in aumento nell’ultimo mese. Sarà probabilmente una battaglia all’ultimo voto.