Migliaia di persone a Yerevan hanno commemorato il centenario del genocidio armeno in un modo insolito: a colpi di rock duro. I System of a Down, la band americana che vede fra le proprie fila quattro discendenti di sopravvissuti a quei tragici eventi, si sono esibiti nella capitale armena in un live «sold out» sotto una pioggia scrosciante. Si è trattato della prima assoluta del gruppo californiano in Armenia, ed è avvenuta nella centralissima piazza della Repubblica, conosciuta fino al 1990 come piazza Lenin. Dove fino a un quarto di secolo fa troneggiava una statua del primo leader dell’Unione sovietica, oggi quattro rocker armeni venuti dall’America gridano l’orrore contro un passato di cui sono figli e che non vogliono assolutamente dimenticare.

Mescolati al pubblico anche moltissimi armeni della diaspora, presenti in questi giorni a Yerevan per commemorare il centenario del genocidio, e poi tanti fan venuti apposta per il concerto dai paesi vicini, e anche dal Medio oriente. Fra loro abbiamo incontrato diversi fan venuti dal Libano, terra natale di due membri del gruppo, ma anche un gruppo di ragazzi iraniani che portavano capelli lunghi e bandane, con tanto di bandiera. Solo che al centro, al posto della scritta «Allah», hanno incollato il simbolo scelto dagli armeni per questo centenario: un fiore dal significato piuttosto evidente, il non ti scordar di me, usato anche per decorare il palco durante il concerto.

https://youtu.be/BTo2JcR9qCw

Per il gruppo capitanato dal vocalist Serj Yankian, l’impegno per il riconoscimento internazionale del genocidio armeno è una causa portata avanti fin dagli inizi, basta pensare al brano P.L.U.C.K. del 1998, dedicata (come si legge nel booklet dell’omonimo album) «alla memoria di un milione e mezzo di vittime del genocidio armeno, perpetrato dal governo turco nel 1915». O, ancora, a un pezzo come Holy Mountains del 2005, che contiene toponimi di luoghi ben noti agli armeni di tutto il mondo: il monte Ararat (a cui fa riferimento il titolo) e il fiume Arasse, luoghi che hanno visto consumarsi quello che molti storici definiscono il primo genocidio del ventesimo secolo.
Il concerto di Yerevan è stata la tappa finale del tour Wake up the souls, inaugurato il 7 aprile a Los Angeles e dedicato alla memoria delle vittime del genocidio.

Oltre che a Yerevan, è stato trasmesso live sul sito della rivista Rolling Stone, in uno streaming introdotto e intervallato da brevi animazioni per sensibilizzare il pubblico sulla questione del riconoscimento del genocidio armeno in Turchia e nel mondo. «Questo non è un concerto rock, questa è una vendetta!», ha urlato il chitarrista Daron Malakian dal palco durante la performance, facendo chiaro riferimento a quegli eventi. Va però dato atto ai System of a Down di aver sempre cercato il dialogo, e di recente hanno dichiarato pubblicamente – qualora se ne presenti l’occasione – di essere disposti ad esibirsi in Turchia, dove hanno migliaia di fan.

Molto importante in questo senso la lettera scritta lo scorso anno da Serj Tankian e pubblicata dalla rivista turco-armena Agos, fondata a suo tempo da Hrant Dink, il giornalista ucciso a Istanbul nel 2007 da un ultranazionalista. Nelle pagine del magazine, con un accorato appello alla riconciliazione, il vocalist del gruppo si rivolgeva alla società civile turca dicendo: «Le nostre storie, la geografia e il nostro stesso sangue hanno troppo in comune per non risolvere questi problemi».

Un impegno a tutto tondo, quello della band armeno-americana, che l’ha portata a pronunciarsi spesso in maniera molto dura non solo sulla questione del genocidio armeno, ma anche sulla politica statunitense. Strenui oppositori di George W. Bush e delle sue guerre, i membri del gruppo non hanno risparmiato in passato critiche anche all’amministrazione Obama, accusata di una sostanziale omogeneità – in termini di politica sociale, ad esempio – nei confronti dei repubblicani. Una critica mossa da sinistra, una parola che Serj Tankian, forse il più attivo in questo senso del gruppo, non si vergogna di utilizzare, attirando su di loro malignità e facili critiche.