I talebani hanno lanciato una nuova massiccia offensiva proprio alla vigilia della Conferenza sull’Afghanistan che si è aperta ieri a Bruxelles. Nella capitale belga arriva il momento delle promesse per un Paese dove – sono dati Ue – il 40% della popolazione vive sotto la linea di povertà e un terzo degli afgani ancora non sa leggere né scrivere.

Mentre scriviamo si combatte a Kunduz, nell’Helmand e in altre aree a Nord e a Sud. E si litiga: in parlamento e nel governo, scaricandosi le responsabilità per l’ennesima battaglia in una città, Kunduz, tenuta un anno fa dalla guerriglia per quasi una settimana. C’è chi dice che l’offensiva finirà per favorire l’apertura della borsa dei Paesi amici. E c’è chi invece pensa che sia l’ennesimo colpo basso a un governo in perenne crisi e a una presenza della Nato che, pur ridotta nel numero dei soldati, è rimasta a presidiare soltanto le caserme che proteggono i suoi militari.

Ieri l’Unione europea ha promesso, in aggiunta al suo programma 2014-2020 (circa 1,4 miliardi di euro), oltre 200 milioni annui per due anni dal 2017 per sostenere l’agenda del governo di Ashraf Ghani, il presidente «dimezzato» insediato due anni fa dopo faticose elezioni presidenziali (ora dovremmo essere alla vigilia di una nuova corsa elettorale per il parlamento) che alla fine hanno sancito un governo a due teste: quella di Ghani e quella di Abdullah Abdullah, ex mujaheddin cui, in barba alla Costituzione, gli americani, veri artefici della nascita del nuovo governo, hanno ritagliato – per raffreddare le sue accuse di brogli – un ruolo di primo piano che lo apparenta al presidente. Col risultato che il governo a due teste – si sa ma non si dice – non funziona.

Oggi, se tutto va secondo i piani, gli americani dovrebbero annunciare altri 3 miliardi di dollari l’anno cui dovrebbe aggiungersi – oltre ai 200 milioni, figli dell’accordo Ue per favorire lo State building – il miliardo di dollari che l’insieme dei Paesi membri verserà annualmente a Kabul almeno sino al 2020. Poi ci sono altri attori (a Bruxelles siedono settanta Paesi e venti tra organizzazioni e agenzie internazionali) e quindi il piatto si arricchirà. Ma con molti «però» e legando l’aiuto futuro a quanto gli afgani sapranno e soprattutto vorranno fare. Non è un assegno in bianco né per gli europei né per gli americani.

Questi ultimi, rimbalzano il vecchio refrain sulla lotta alla corruzione e legano l’aiuto, sembra di capire, al fatto che il governo dovrà fare come dice Washington, si tratti di pace o di guerra. Dovrà soprattutto garantire – e questo sembra il non detto più evidente – che le basi militari afgane, di cui gli Stati Uniti hanno il diritto di servirsi come credono, dovranno rispettare l’accordo siglato da Ghani appena eletto presidente e che garantisce di fatto agli Usa il controllo dell’intero Paese.

I tedeschi invece non hanno usato perifrasi: o Kabul rispetta le regole, e cioè in sostanza pone un freno ai suoi migranti verso la Ue, oppure si rifanno i conti (nel caso di Berlino sono 1,7 milioni di euro per quattro anni).
Una posizione già espressa alla vigilia della Conferenza e che non sembra condivisa da Federica Mogherini, responsabile Esteri della Ue, che la questione immigrazione non ha voluto mettere in agenda, forse anche per fugare il timore che esista un piano che lega migranti e aiuto allo sviluppo come hanno suggerito, con toni accesi, soprattutto i media britannici.

Ma se Ghani tornerà a casa soddisfatto (un altro accordo prevede che l’aiuto militare continuerà ancora per anni e che il governo avrà i fondi per pagare gli stipendi ai soldati afgani) sul piano della pace, al di là di una retorica che ormai non viene neppure più utilizzata, passi avanti non se ne vedono come ben dimostra un Paese dove aumentano le vittime civili e dove la guerriglia, che finora si era sempre limitata ad attentati e a qualche azione eclatante, sembra aver cambiato strategia, puntando al cuore delle città.

A Bruxelles nessuno si chiederà se abbia senso mantenere ancora una presenza militare dai costi enormi e che per un eventuale negoziato è l’ostacolo maggiore visto che per i talebani l’uscita degli stranieri dal Paese è il primo paletto per sedersi al tavolo della trattativa. Né gli alleati chiederanno conto agli Stati Uniti dell’accordo con Kabul che consente a Washington il controllo di dieci basi militari, ipoteca che ha fatto restare nel Paese 10 mila soldati Usa o di fermare il piano graduale di ritiro promesso da Obama e obbligare la Nato a rimanere.

Un quadro dove, accanto alle nostre responsabilità, si sommano i disegni dei Paesi vicini: il Pakistan naturalmente, ma anche l’India, sempre più muscolare nel suo piano di avvicinamento a Kabul, o la Cina che, silenziosamente e «armoniosamente», si sta accaparrando gran parte del tesoro minerario nazionale. Ci si dovrà accontentare dei quattrini.