Tutti perdono, tranne la Lega, e il Pd perde più voti di tutti. Nel complesso sparisce quasi un (altro) milione e mezzo di elettori. Questo dice il confronto immediato tra le elezioni di domenica e le elezioni più vicine nel tempo, le europee dello scorso anno, l’unico precedente dell’era Renzi.

Astensionismo

Per approssimare il più possibile il voto di opinione si possono confrontare i voti assoluti nei sette comuni capoluogo chiamati alle urne – oltretutto ben diffusi sul territorio da nord a sud – con quelli del 2014. Venezia, dove si sceglieva anche il sindaco, è l’unica città che guadagna (pochi) elettori rispetto allo scorso anno; in tutte le altre c’è il segno meno.
Dal tutto sommato contenuto -2,18% di Napoli si passa al clamoroso -25,14% di Bari e al -21,5% di Firenze. Perugia perde il 13% degli elettori, Ancona l’8,31% e Genova il 6%. L’istituto Cattaneo, che ha condotto questi confronti a livello regionale, conclude che con queste elezioni «l’astensione è divenuta per la prima volta l’opzione maggioritaria in diverse regioni del paese», così come annunciava la scarsissima partecipazione alle regionali del 2014 in Emilia-Romagna (ricordiamolo, votò solo il 37,7%). In linea con quel risultato è l’astensione record di domenica in Toscana, Umbria e Marche: conferma che sono proprio le regioni rosse a registrare il massimo di disaffezione. Non cambia il quadro il confronto con le precedenti regionali (più corretto ma assai datato; nel marzo 2010 Berlusconi era ancora a palazzo Chigi e Bersani era fresco segretario del Pd). L’astensionismo nelle nostre sette città è cresciuto anche rispetto a cinque anni fa, in media di oltre il dieci percento.
Allungando indietro lo sguardo, «se negli anni Novanta in occasione del voto regionale votava una percentuale non dissimile dalle politiche, oggi la situazione è cambiata radicalmente e le elezioni regionali sono diventate quelle meno partecipate… la perdita di appeal è stata maggiore proprio nelle regioni tradizionalmente più partecipate» è ancora l’analisi dell’Istituto Cattaneo. Lontani i tempi del buon governo, oggi le regioni vengono percepite come «il concentrato a livello locale dei mali della politica nazionale».

Senatori

Se, come vorrebbe Renzi, la riforma costituzionale dovesse essere approvata entro la legislatura, allora domenica – con questo livello di attenzione e fiducia – gli elettori di Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Umbria, Campania e Puglia avrebbero scelto anche un terzo del prossimo senato. I consiglieri regionali neo eletti dovrebbero votare 26 parlamentari al loro interno e altri sette tra i sindaci delle regioni. Totale 33 senatori. Attenzione: Renzi ha mandato qualche segnale di ripensamento, assai contraddittorio per la verità, in direzione di un ritorno all’indicazione popolare dei senatori. Anche ammesso che questo sia possibile al punto in cui si è giunti (e non sembrerebbe), si può cambiare la legge a regime ma non la norma transitoria – perché le regioni non si rinnovano contemporaneamente – a meno di non voler rimandare il debutto del nuovo senato di alcuni anni. Allora è interessante vedere come si divideranno tra i partiti i nuovi senatori sulla base dei risultati di domenica. Grazie agli abbondanti premi di maggioranze inseriti in tutte le leggi regionali, il Pd prenderà molto: 13 senatori dei 33 assegnati ai 7 consigli regionali appena rinnovati. Segue il Movimento 5 Stelle con 5 senatori, 4 a testa per Lega e Forza Italia, uno per Fitto. E non mancherà un discreto numero di senatori «personali», scelti dalle liste di diretta creazione dei «governatori», 3 per Zaia, uno per Emiliano e ben due per le liste «civiche» che hanno appoggiato De Luca, quelle a massima concentrazione di cosiddetti «impresentabili». Naturalmente questo è solo un effetto indiretto delle leggi elettorali regionali iper maggioritarie, quello diretto essendo la blindatura dei nuovi consigli. Esempio per tutti l’Umbria, rimasta in bilico nella notte tra domenica e lunedì malgrado la sua storia di regione rossa, e poi assegnata alla presidente uscente con appena il 3% dei voti di scarto. Più che sufficienti, però, perché grazie alla nuova legge il Pd si vede assegnare 10 consiglieri su 20, mentre alla Lega giunta seconda ne vanno solo 2. Il confronto con il consiglio uscente è illuminante: cinque anni fa la (stessa) candidata del Pd vinse con la bellezza di 20 punti percentuali di scarto e il partito conquisto 9 consiglieri, appena uno più dei secondi (allora il Pdl).

Voti

Maggioritario e premi confondono assai l’analisi del voto, allora è utile tornare alle cifre assolute. Il Pd ha perso ovunque, sia rispetto al 2010 (un milione di voti in meno) che alle europee dello scorso anno (oltre due milioni di voti in meno). Ogni regione fa storia a sé e conviene scendere nel dettaglio delle città capoluogo. Per scoprire che il «disturbo» delle liste civiche c’entra poco, visto che il crollo maggiore il Pd lo registra a Perugia (da 89mila a 28mila voti) e a Genova (da 122mila a 48,5mila), capoluoghi di regioni dove più scarsa era la presenza di queste liste (attorno all’1%). Dodici mesi dopo le europee, il Pd deve registrare un vero tracollo a Napoli, città dove raccoglie un settimo dei voti di allora (60mila rispetto a 420mila). A Napoli e a Genova, ma anche a Bari il primo partito è ormai il Movimento 5 Stelle. Eppure anche i grillini perdono, sono ben lontani dal record delle politiche del 2013 (due milioni di voti in meno) e dal risultato più modesto dell’anno scorso (900mila voti in meno). Ancona, Napoli e Firenze sono le città dove il calo è più contenuto. Firenze e la stessa Genova quelle dove invece la flessione dei 5 stelle rispetto al 2014 si nota di più (da 77mila a 54mila voti nella città di Grillo). Per trovare chi ha vinto bisogna passare così alla Lega, che ha moltiplicato per quattro i suoi voti a Firenze a Ancona e Perugia, per tre a Genova e per 1,5 a Venezia. Mentre era assente a Bari e a Napoli (dove però è comparsa una lista sudista ed è cresciuta del 32% Fratelli d’Italia).