Il progresso tecnologico costituisce una via tradizionale usata dal capitale per superare le proprie crisi, attraverso la creazione di nuovi bisogni e nuovi mercati, e l’aumento della produttività del lavoro, a prezzo dell’espulsione di manodopera dal processo produttivo. Il declino del compromesso fordista, che aveva permesso a sindacati e management di “spartirsi il bottino” dello sviluppo tecnologico, ha aperto una transizione nella quale crisi capitalistica e innovazione tecnologica stringono il lavoro in una spirale dalla quale non si intravede via d’uscita.

La sinistra annaspa, ed i suoi movimenti scomposti contribuiscono a stringere il nodo della spirale attorno alla gola dei subalterni. Invece bisognerebbe liberarsi con un taglio netto, trasformando la spirale crisi-innovazione tecnologica-aumento della disoccupazione-aumento del tempo del lavoro in un circuito virtuoso innovazione tecnologica-diminuzione dell’orario di lavoro-uscita dalla crisi.

Anche perché la storia delle lotte del movimento operaio e socialista è lotta per il controllo del tempo del lavoro e della vita da parte dei subalterni, costretti a vendere il proprio lavoro assieme al proprio tempo, non solo quello della fabbrica. Col passaggio dal luddismo al marxismo, l’obiettivo della gestione del tempo come fine della lotta del proletariato rimane inalterato – la riduzione dell’orario di lavoro è il passo in avanti fondamentale per l’uscita dal regno capitalistico della “necessità” – ma lo sviluppo tecnologico dei mezzi di produzione da elemento di assoggettamento dei subalterni si trasforma in oggetto di battaglia politica.

Oggi prevale nel dibattito pubblico la disseminazione del senso di smarrimento: l’idea che la quasi-rivoluzione industriale a cui assistiamo porterà, in estrema sintesi, alla distruzione dei posti di lavoro e quindi all’instabilità sociale. Al disastro.

Il processo di innovazione tecnologica corre in effetti a velocità drammaticamente superiore rispetto a quello del mutamento sociale (e ambientale): la domanda a cui si deve rispondere è come tenere insieme i due processi, e impedire che la società venga fatta a brandelli dall’incapacità di affrontare la sfida. Fermare i cambiamenti in atto tuttavia non è neppure auspicabile. La tecnologia è di per sé neutrale, e qui sta la grande scelta: lasciare la padronanza del sapere tecnologico a pochi grandi centri di potere con il loro “neoliberismo in salsa tech” (Chomsky), oppure distribuirlo alle persone.

Se scegliamo la seconda strada, allora diamo vita a una svolta democratica generatrice di eguaglianza contro il digital divide, alla luce anche della grande frattura generazionale creata con l’avvento contestuale di cambiamenti repentini nel mercato del lavoro da un lato e della crisi economico-finanziaria dall’altro: se fino a poche generazioni fa istruzione e occupazione facevano rima davvero, sappiamo bene come crisi e rivoluzione tecnologica abbiano distrutto lavori e redditi esistenti e desertificato ambizioni potenziali, disorientando una massa intera di giovani, costretti alla resilienza.

La maggior parte delle realtà investite dal processo di digitalizzazione verrà ridefinita, ma non eliminata. Il ragionamento non va limitato però entro il confine del che fare per quei lavoratori le cui mansioni non sono più richieste dal mercato. Proprio perché inesplorato è un campo che incute timore: quanto tempo libero in più avremo?

Se ribaltiamo la prospettiva, ci troviamo di fronte ad un’eclatante possibilità di liberazione. Il tasso di disoccupazione è ancora tristemente alto e il tasso di inattività non decresce. Questo significa che c’è un gran numero di persone che, se crediamo che il lavoro conferisca dignità all’uomo, è di fatto escluso dall’accesso a una vita dignitosa. Allo stesso tempo molti di noi conoscono, o sono, persone che lavorano più di otto ore al giorno, perché in molti settori il ritmo di produzione richiesto è alto e incessante.

Ma se mettiamo insieme i pezzi ci accorgiamo che la tecnologia permette di migliorare la produttività, riducendo i tempi di lavoro; automatizza alcune attività, ma allo stesso tempo crea nuove professioni; il numero di persone che non lavora è troppo alto.

Torna un’idea semplice, lavoriamo meno e lavoriamo tutti, godendo così di un welfare a questo punto capace di camminare con le proprie gambe, in parallelo con l’aumento del numero di contribuenti. Se avremo più tempo libero saremo più capaci di realizzarci ed essere felici. Se la fine della divisione sociale del lavoro appare ancora un’utopia di là da venire, forse l’obiettivo di superarla entro il confine del tempo biologico della vita di una stessa persona è a portata di mano.

Lo Stato e le organizzazioni sovranazionali dovrebbero svolgere il ruolo fondamentale di legislazione che tale svolta, che non è pensabile possa essere adottata in un solo Paese, comporterebbe. Innanzitutto istituendo uno strumento di supporto al reddito che permetta di superare senza traumi sociali la fase di transizione in cui stiamo entrando: il quantitative easing for the people lanciato da Jeremy Corbyn.

Cosa ne sarebbe stato della vicenda del movimento operaio senza la battaglia per le otto ore? Una parola d’ordine capace di costruire mobilitazioni, blocchi storici, ritualità, una vera e propria civiltà del lavoro. Una domanda concreta, ma allo stesso tempo aperta a scenari di cambiamento globale. All’epoca in cui fu lanciata, pareva spesso un miraggio la conquista delle dieci ore.

Ma la lotta premiò, e l’utopia delle otto ore divenne realtà.

Rilanciare oggi una battaglia per l’ulteriore abbassamento della giornata lavorativa contribuirebbe a rivitalizzare le ragioni di una sinistra in cerca di significato sociale e ridarebbe al contempo fiato all’agonizzante “modello sociale europeo”, sbandierato ormai come un feticcio, ma espropriato dalla crisi di ogni significato e contenuto riconoscibile per i popoli del Continente.