Tel Abyad è libera. Siamo entrati al crepuscolo di mercoledì per primi tra i giornalisti a camminare per le strade di una città controllata per così tanto tempo dai jihadisti dello Stato islamico (Is). Da un anno e cinque mesi l’Isis governa le strade, le scuole, le case di questa città fantasma dove la vita stenta a tornare alla normalità dopo l’attacco dei combattenti kurdi delle Unità di protezione popolare maschili e femminili Ypg e Ypj. I tre bombardamenti della coalizione internazionale hanno messo in fuga i miliziani mascherati.

Uno ha colpito il quartier generale dello Stato islamico nella periferia urbana. Ormai sono visibili solo pietre e segni di mortaio. La bandiera gialla, rossa e verde degli Ypg sventola dal posto di confine a sostituire il vessillo nero dello Stato islamico.

I resti dello «Stato»

Quando i miliziani kurdi hanno preso la dogana i jihadisti si sono dileguati. Ma i segni del loro «Stato» restano chiari: le scritte sulle saracinesche dei negozi, il simbolo de «Non c’è che dio» all’ingresso della città. All’entrata dell’ospedale pubblico si può leggere la lista dei prezzi da 250 lire siriane (meno di un euro) a 4 mila (14 euro) per una visita pediatrica, fino a 8 mila per partorire. «Sono prezzi cari. Ai tempi di al-Asad qui era tutto gratuito», ci spiega il guardiano.

L’ospedale è stato devastato dai jihadisti che hanno anche tagliato i cavi della corrente elettrica in tutta la città prima che i combattenti kurdi arrivassero. Tutti i macchinari medici sono stati gettati alla rinfusa nel cortile. Secondo Ahmed, sarebbero stati i miliziani a rubare le maschere delle bombole di ossigeno che si trovano ora nel cortile per camuffarsi nella fuga.

Altri si sarebbero tagliati la barba prima di mimetizzarsi tra le migliaia di profughi diretti in Turchia o sono scappati nella roccaforte jihadista di Raqqa. Alle 5 del pomeriggio il valico ha chiuso per riaprire ieri mattina. «Settecento profughi, soprattutto arabi, sono rientrati dopo essere fuggiti durante i combattimenti», ci spiega Jean Feda, comandante dei Ypg di servizio alla frontiera. «Anche gli arabi devono rientrare. Combattiamo per tutta l’umanità. L’Isis fa propaganda negativa accusandoci di vendette sommarie contro gli arabi. Mentono», continua il militare. Sarebbero venti i combattenti jihadisti tenuti prigionieri in città ma nessuno dice dove sono. Secondo i miliziani, una donna sarebbe stata uccisa dai jihadisti in fuga. Denudata e legata ad una pietra, rivestita di esplosivo, messa di fronte ai miliziani Ypg è stata fatta saltare in aria prima che arrivassero.

Dieci sarebbero i jihadisti morti a Tel Abyad: segno che non si è combattuto.

Mohamed è tornato da due ore in città. «Non ho visto i jihadisti commettere massacri. Non so ora cosa faranno i Ypg. La mia famiglia è sparsa in tutto il paese. I miei figli sono a Raqqa», racconta. In piazza e su via

Mercato i segni delle barricate sono evidenti: sedie divelte di uffici, banchi di scuola, pezzi di alluminio rubati da un ristorante. Le moto che circolano in città fanno il zig zag tra gli ostacoli.

Quello che resta

«Fin qui non possiamo dare un giudizio sui miliziani kurdi», ci spiegano Gazi e Buran, due arabi che mai hanno lasciato Tel Abyad, una città in cui a differenza di Kobane dove spopolano i kurdi conta oltre l’80% di arabi.

Per loro i tempi migliori erano quelli di Bashar. «Allora non si poteva parlare di politica ma si viveva meglio. Vediamo quanto tempo dureranno i kurdi», dicono con non poca ironia. Qui in quattro anni sono passati per quattro regimi: al-Asad, Esercito libero siriano (Els), Stato islamico e combattenti kurdi (Ypg). Per questo non lesineranno critiche al Cantone di Kobane se le cose non dovessero andare meglio.

«Con l’Isis qui c’era acqua, elettricità e ospedali. Ci aspettiamo almeno questo», considera Ibrahim che viene da Hama ma è pronto a cambiare città di nuovo se le cose non dovessero migliorare. Un uomo di Palmira ci indica una moschea vicina dove 50 persone sono state da giorni senza cibo. «Veniamo da Raqqa, Deir ez-Zor, Aleppo, Sarrin. Siamo tornati dalla Turchia quando abbiamo saputo della liberazione della città. Ma non possiamo tornare a Raqqa perché l’Isis lì è ancora forte», ci spiegano con la morte negli occhi. «Sono felice che il Pkk di Ocalan sia qui», ci assicura un giovane in città.

«Non sono musulmani»

Mentre più avanti Adel, Ahmed e Mohamed, tre braccianti, sono tornati a Tel Abyad, dopo cinque mesi in Turchia. «Mi fa piacere che i Ypg abbiano preso la città. Ai tempi dello Stato islamico non si poteva pregare per strada: che cosa assurda. E chi invece si rifiutava di pregare veniva sgozzato. È successo a tre persone a cui hanno tagliato la gola con lunghi coltelli in piazza», rivelano. «Vengono nel nome dell’Islam ma non sono musulmani», aggiungono. Uno dei pochi droghieri che ha riaperto ci spiega che il meccanismo di riscossione delle tasse era molto vago ai tempi dell’Isis. «I miliziani buoni ci chiedevano di pagare una tassa del 15%.

Quelli cattivi anche dell’85», ammette. William, un soldato francese dei Ypg, ci spiega perché la città strategica per unire i cantoni di Kobane e Jezira è stata per tre giorni irraggiungibile tanto che a in città molti sostenevano che i combattimenti fossero ancora in corso. «I jihadisti hanno lasciato mine e macchine esplosive ovunque. Abbiamo dovuto ripulire tutto», ammette. William è qui per combattere contro gli islamisti radicali da volontario. Ma sa bene che i mezzi a disposizione dei Ypg sono pochi.

«Spesso non sappiamo dove ci troviamo ed è molto difficile stabilire delle strategie di conquista delle città. Per esempio a Soluk (villaggio tra Kobane e Tel Abyad) abbiamo combattuto per dieci giorni. Qui poche ore», considera. E poi ridimensiona l’apporto dell’Esercito libero siriano (Els) nella liberazione della città. «Sono simbolici. Servono a rassicurare gli arabi. Per esempio qui a Tel Abyad si sono limitati ad accompagnare l’avanzata dei Ypg. Non hanno combattuto», rivela William che ha lasciato la sua società in Vietnam per difendere i «valori francesi». All’alba di ieri la Collina bianca (Tel Abyad in arabo) a un tiro di schioppo dalla Turchia è rinata.

Le file per il pane erano infinite. «Is era terribile. Eppure dei tre fornai attivi un tempo solo questo è ancora aperto», spiegano dei ragazzi in fila.Una carovana con il governatore Anwar Muslim e i ministri di Kobane hanno raggiunto Tel Abyad per mostrare al mondo la continuità territoriale di Rojava, fino a Qamishli. Case distrutte, strade interrotte, bandiere dell’Isis ancora non rimosse, campi bombardati e dati alle fiamme, la strada per Kobane è ancora piena di ostacoli. Pochissime persone si intravedono ai lati delle stazioni di servizio. Nel villaggio di Zanzuri, 11 combattenti di Ypg hanno rifiutato di arrendersi a Daesh e si sono fatti saltare in aria.

A Kobane però la festa per la liberazione di Tel Abyad non finisce. Una grande parata militare tra gigantografie di Ocalan, gruppi musicali di combattenti che fanno pop, strette di mano tra i soldati di Ypg e le compagne di Ypj confermano che nella Rojava si vivono giorni straordinari. Qui i sogni dell’autogoverno del leader in prigione hanno trovato realtà.