Colpisce negli economisti, nei banchieri e nei manager delle grandi imprese l’assenza di empatia. Mario Monti intervistato da Lilli Gruber prima di diventare primo ministro parlando della Grecia si entusiasmava (si fa per dire) per come quel paese stesse facendo in poco tempo un lavoro di dieci anni. Tanto che la giornalista, interdetta, ha dovuto ricordargli le sofferenze dei greci. E Marchionne, il global manager per eccellenza, va oltre anche nei toni. Ma non è un atteggiamento di personalità particolari.

«Dobbiamo competere, tagliare la spesa sociale, bloccare i salari, chiudere fabbriche non competitive, poter licenziare, lavoro flessibile, mobilità, non più imprese nane…» sono frasi comuni. Non c’è mai cenno alle migliaia di esseri umani, milioni nel mondo, colpiti dai loro piani, soltanto numeri, diagrammi, percentuali, algoritmi, bilanci, teorie. Non è un loro problema. E questa discutibile opinione è diventata verità rivelata.

Domanda: quale contesto culturale ha formato questa élite che oggi decide della nostra vita? Non è infatti l’attività economica o finanziaria in sé che conduce ad esiti disumani. Mercanti e imprenditori nei secoli hanno fatto anche altro e Adam Smith, il padre nobile del libero mercato, non ha scritto solo i testi sacri dell’economia. La complessità si è dissolta ed è diventato un luogo comune che un bravo tecnico non deve avere emozioni (il televisivo dottor House insegna). Un noto saggio di Milton Friedman pubblicato sul New York Times magazine nel 1970 chiarisce la mutazione con un linguaggio che non dà spazio ad equivoci: la responsabilità sociale delle imprese è verso gli azionisti-proprietari e consiste nell’aumentare i profitti. Degli ultimi e di chi non ce la fa, si può occupare la filantropia. Uno scritto che, come tutti i suoi, colpisce per l’aridità dell’animo. Stuart Mill, altro padre dei liberali, ricordava il ruolo fondamentale che la poesia di Wordsworth, cantore del paesaggio meraviglioso del Lake District, aveva avuto nella sua vita, risvegliando le sue emozioni e aprendolo alle emozioni degli altri. Ottocento romantico.

Oggi è il tempo tutto dell’Homo oeconomicus. Questa visione impoverita della vita ha condizionato in Occidente l’educazione familiare e le politiche scolastiche: la letteratura, l’arte, la poesia, la storia, non producono profitti quindi non servono e la logica contabile dei governi, di destra e di sinistra, le ha ridotte drasticamente.

Ma anche le discipline tecniche degradano: la matematica più apprezzata fornisce algoritmi per speculare in Borsa.

Martha Nussbaum ha studiato a fondo il sistema d’istruzione degli Stati Uniti, dove insegna legge ed etica, e da anni si batte contro la tendenza a tagliare gli studi classici, discipline che ritiene invece fondanti per un’educazione alla vita civile. L’abbandono della cultura umanistica, sostiene, limita lo sviluppo di una sensibilità simpatetica e quella capacità di pensiero e immaginazione che ci rendono umani. Senza di questi la democrazia non può esistere perché «è costruita sul rispetto e sulla cura, a loro volta costruiti sulla capacità di vedere le altre persone come esseri umani e non come oggetti» (M.N.«Non per profitto»).