Non sono molti i rivoluzionari che continuano a esserlo per tutta la vita. Franco Berardi Bifo è uno di questi, e non si è mai fermato. Il suo libro The Soul at Work: From Alienation to Autonomy (Semiotext(e)/Foreign Agents) è appena uscito in Italia, L’anima al lavoro (DeriveApprodi, pp. 288, euro 16). Un libro della crisi, e sulla crisi, a cui aveva lavorato a ridosso del crollo finanziario del 2008. Nel volume si ricostruisce e si ripensa la visione del marxismo sul lavoro, chiave di volta per la costruzione della lotta di classe basata sulla coscienza dell’appartenenza identitaria degli operai al proletariato.
Le lotte degli anni ’70 dell’operaismo italiano, che Bifo chiama composizionismo, per ridurre l’orario di lavoro e aumentare il salario erano rese possibili dalla condizione di alienazione del lavoratore in catena di montaggio che ripeteva movimenti del corpo, senza coinvolgere la mente. L’alienazione del corpo consentiva al lavoratore l’estraneità al processo lavorativo e la costruzione di un’identità alternativa fatta di solidarietà tra lavoratori, prerogativa della coscienza di classe, basata su un progetto collettivo, su una narrazione comune.

La temporanea saldatura tra gli interessi del capitale e quelli dei lavoratori ha condotto a una riduzione del tempo di lavoro umano necessario per la produzione fisica di beni. L’introduzione delle macchine digitali nel processo produttivo è la chiave di questo successo. Le macchine hanno sostituito il lavoro dell’operaio, riducendo l’incatenamento del corpo al tempo di produzione, ma la conseguenza dello scarto è stata presto l’alienazione dell’anima del lavoratore.

Negli anni ’80 del secolo scorso, attraverso l’impiego massiccio del digitale nella produzione da un lato è stato possibile mettere in rete la produzione, destituendo la necessità della gerarchia dal funzionamento produttivo e dall’altro abbiamo assistito alla parcellizzazione di ogni processo in una sequenza di singole attività elementari, da svolgere anche separatamente e lontano da un preciso luogo fisico. Non è più necessario al datore di lavoro pagare l’intera struttura del salario, incluse le tutele sociali dei lavoratori (malattia, pensione, maternità ecc.). Il rischio d’impresa non sta più in capo al «semiocapitale». Il cognitariato, la classe dei lavoratori cognitivi, non condivide il luogo di lavoro, né la coscienza di classe, e non ha limiti nel tempo da dedicare al lavoro, da cui fa dipendere completamente la propria identità. Il cellulare è per Bifo «la realizzazione del sogno del capitale, succhiare ogni possibile atomo di tempo produttivo nell’esatto momento in cui il processo produttivo ne ha bisogno». Il tempo di lavoro pagato è solo quello effettivamente utilizzato (o anche di meno) mentre la disponibilità della giornata lavorativa è di 24 ore. Lo smartphone non dorme mai e noi con lui.

L’unica cosa che lascia perplessi in questa bruciante analisi della tecnologia al lavoro è la convinzione di Bifo, nonostante la descrizione inequivocabile dei problemi che crea nella società, che lo sviluppo del digitale sia frutto delle ideologie rivoluzionarie degli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo e ne condivida lo spirito e i presupposti. Non convince perché proietta sui grandi innovatori del digitale e di Internet la propria incrollabile appartenenza rivoluzionaria. Non tutti gli ex rivoluzionari restano fedeli al loro spirito originario e inoltre i movimenti libertari americani, da cui nasce l’idea del computer come strumento di comunicazione, non sono precisamente riconducibili ad avanguardie rivoluzionarie. Il desiderio è un campo di lotte entro cui si gioca una lotta di potere tra vita e ripetizione (cioè morte), lo dice Bifo in un altro contesto, ma vale anche per l’innovazione tecnologica.

Quanto costa l’attenzione permanente per accedere a tutte le informazioni disponibili, per non perdere opportunità di lavoro autonomo? Il prezzo è l’usura delle nostre facoltà mentali. Bifo spinge verso un’interpretazione sociale delle malattie psichiche più diffuse: il panico e la depressione. In una società basata su competizione costante e crescita infinita, ci sono gli sconfitti, ma non solo: tutti sanno che prima o poi perderanno.
Lo mostra il fregio dell’argine sul lungotevere dell’artista sudafricano William Kentridge, inaugurato per il natale di Roma. Si chiama Triumphs and laments: non solo di fronte a ogni trionfo sta la sofferenza di chi soccombe, ma ogni trionfo prelude sempre alla successiva sconfitta del vincitore.

È l’effetto di quella che Bifo chiama Prozac economy, economia dell’eccesso, dell’eterno sviluppo, anfetaminica. Letteralmente il mondo finanziario si è nutrito di eccitanti chimici; mentre la guerra è, per Bifo, l’anfetamina dopante di una società in crisi: gli additivi stimolanti, però, non durano all’infinito.
Vista così la società sembra senza speranza. Bifo invece crede che si possa chiedere un reddito per non lavorare, che sia necessario concepire l’identità soggettiva fuori dal lavoro. Esiste la possibilità rivoluzionaria di investire il proprio tempo, il proprio spazio fisico e mentale in uno stile di vita che potremmo definire spirituale, in una ricerca oltre la produzione e l’innovazione. La soluzione è un esodo volontario dal lavoro ormai inutile, per vivere in autonomia.