Sugli ampi margini bianchi (larghi «un mezzo palmo e forse più») del volume in foglio della «Divina Commedia» nella prima edizione con il commento del Landino in suo possesso, Michelangelo Buonarroti «aveva disegnato in penna tutto quello che si contiene nella poesia di Dante; perloché v’era un numero innumerabile di nudi eccellentissimi e in attitudini maravigliose».

Agli inizi del Settecento il mirabile libro giunge alle mani dello scultore fiorentino Antonio Montauti che «faceva una grande stima di questo volume». E quando, nel 1733, Montauti, sui cinquant’anni e circondato di assai buona fama, da Firenze si trasferisce a Roma dove papa Clemente XII gli commette una ‘Pietà’ per la basilica di San Giovanni in Laterano, procura di far «venire per mare un suo allievo con tutti i suoi marmi e bronzi e studi e altri suoi arnesi».

Tra Livorno e Civitavecchia, colta da una violenta e improvvisa burrasca, la nave fa naufragio: «e vi affogò il suo giovane e tutte le sue robe, e con esse si fece perdita lacrimevole di questo preziosissimo volume, che da sé solo bastava a decorare la libreria di qualsivoglia gran monarca». Apprendiamo la vicenda da una puntuale nota del dotto ed erudito filologo Giovanni Gaetano Bottari che leggiamo in calce ad un passo delle «Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti» di Giorgio Vasari (in una edizione stampata per sua cura a Roma, in tre tomi, nel 1760) là dove Vasari dice di Michelangelo assiduo lettore di Dante.

Certa o non certa l’esistenza dei disegni tracciati sul libro perduto, il racconto di Bottari è ripreso da Francesco Algarotti nel suo «Saggio sopra la pittura» allorché giunge al paragrafo in cui egli tratta «Della invenzione», quando rileva che «quello spirito bizzarro e profondo di Michelagnolo nelle sue composizioni danteggia, come omerizzavano altre volte Fidia ed Apelle». Traggo spunto dalle considerazioni di Algarotti per tornare su un argomento già indicato al lettore di questa rubrica: se non sia diffusa e da molti avvertita con particolare interesse, come a me pare, l’esigenza di precisare le peculiarità della pittura, oggi, nell’universo di immagini virtuali che proliferano senza sosta fino a costituire, in quanto tali, una inedita sorta, tanto generica quanto autosufficiente, di «pensiero visivo». Modalità che non solo pervade, ma assorbe ed esaurisce entro le sue coordinate ogni costrutto discorsivo non immediatamente legato alla visione e, si direbbe, ogni ulteriore e diversa fonte di giudizio. Dunque, Algarotti su l’«invenzione» in pittura. E non è senza significato che la distinzione che intende fissare il tratto peculiare della composizione pittorica operi su una preliminare attestazione di affinità, su un preventivo raccordo che lega pittura e poesia: «il pittore idealista, scrive Algarotti, che è il vero pittore, è simile al poeta, imita, non ritrae». E vale per la pittura quanto afferma per la poesia Pope, essere cioè «methodized Nature», ovvero «una natura ridotta a perfezione ed a metodo». Ma le ‘perfezioni’ della poesia sono altre rispetto alle ‘perfezioni’ della pittura. E vanno ben al di là dell’antico adagio di Simonide che ci conserva Plutarco: «la pittura è poesia muta, la poesia pittura che parla». Tra gli altri, con molta finezza, Algarotti mette in luce un punto «di non lieve importanza». La rappresentazione del poeta, argomenta, «trapassa per tutti i gradi dell’azione; e si vale, ad operar nell’uditore i più grandi effetti, della successione del tempo».

Questa possibilità diacronica della poesia pare interdetta alla pittura che ha la sua regola nella sincronia. Il pittore, infatti, è in grado di rappresentare sulla tela «un momento solo dell’azione», anche se, aggiunge Algarotti, è un «momento, in cui può recare innanzi all’occhio dello spettatore mille obbietti in una volta». Può, proprio per questo, esser considerato il suo operare sintetico come equivalente a quell’operare per scansioni in successione consentito al poeta e qui realizzato dal pittore in una volta sola? No. Diversa è l’unità di tempo della pittura dall’unità di tempo della poesia che nell’invenzione, ovvero nel «ritrovamento di cose verisimili adattate al soggetto che si vuole esprimere», prende avvio e mette capo a tempi che restano incommensurabili.