Nel momento in cui una società cambia la propria struttura produttiva, il proprio modo di lavorare e distribuire la ricchezza si verifica spesso un fenomeno noto come «ritardo culturale»: le categorie, il linguaggio e il modo di pensare attraverso le quali ci rapportavamo al mondo sociale divengono obsoleti e cresce in noi la sensazione di perdere il controllo su qualcosa di nuovo che non sappiamo più comprendere.

Nel passaggio dalla società industriale a quella post-industriale globale, ormai verificatosi da alcuni decenni, ciò che è accaduto è in parte il venir meno di schemi di pensiero adeguati ai tempi nuovi e in parte qualcosa di più, specie in Italia: la mancanza di uno o più modelli di riferimento e orientamento utili a pensare e agire nel mondo, lì dove la nascita di tutte le principali forme di società che abbiamo conosciuto almeno dall’antichità ad oggi, è stato preceduto o immediatamente seguito dall’elaborazione di progetti sociali, a volte anche utopici, utili a guidare il cambiamento.

Tra l’esigenza di ricostruire un nuovo linguaggio e quello di contribuire a sviluppare ulteriori modelli, si muove il libro di Domenico De Masi, significativamente intitolato Tag. Le parole del tempo (Rizzoli, pp.768, euro 20). Sociologo del lavoro e intellettuale conosciuto anche dal grande pubblico – tra l’altro per le sue provocatorie tesi sull’ozio creativo come nuova dimensione cui il lavoro potrebbe oggi tendere – De Masi sceglie in un libro ben scritto e godibilissimo ventisei termini (come disorientamento – appunto – bellezza, creatività, partiti, web o meno scontati come Kelvin, Faust, Vàclav – Havel) utili a mettere a fuoco sfide e opportunità del mondo contemporaneo.

Proprio su questa ambivalenza, lontana tanto dall’ottimismo neo-liberista quanto dal pessimismo dei critici sociali più radicali, si gioca uno dei tratti caratterizzanti la riflessione che De Masi ci propone: occorre partire sempre dalla consapevolezza che il mondo contemporaneo non è sicuramente il migliore dei mondi possibili ma è (a suo giudizio) il migliore di quelli sinora esistiti, ricco di problemi ma unico nel fornire (potenzialmente) le risorse per costruire nuovi orizzonti di emancipazione sociale e umana.

Scrivendo di questo volume, sarà necessario segnalare però due fili conduttori e un punto debole. La prima direttrice – abbastanza ovvia trattandosi di un libro sulle nuove categorie del pensiero, ordinario e scientifico – riguarda la costante attenzione e l’altrettanto costante critica che il sociologo sviluppa nei confronti degli intellettuali contemporanei: De Masi non crede che non esistano più; al contrario, è convinto che oggi le figure intellettuali si siano trasformate in una soggettività multiforme definita innanzitutto dal nuovo rapporto con la produzione immateriale, con l’uso della conoscenza e della creatività nel lavoro.

Questa «classe creativa diffusa» comunica, produce, si muove nelle reti, a volte in posizione dominante (negli Stati Uniti) a volte in posizione più sfumata e differenziata (in Italia). Lì è più forte qui è più debole. In ogni caso, questa nuova soggettività «trainante» non è stata in grado, nella maggior parte dei casi, di costruire modelli di orientamento sulla nuova società oltre il neo-liberismo (che, in fondo, è una riedizione di categorie ottocentesche) e il suo balbettio, la sua frammentazione ha contribuito a portare la politica (specie quella della sinistra, come si legge chiaramente al lemma «Partiti») fuori strada; privandola di quella realistica cultura critica in grado di liberare le potenzialità contenute nei modi di produzione della società post-industriale, oltre l’alternativa novecentesca tra socialismo e capitalismo.

Strettamente legata a questa posizione è il modello di società che De Masi disperde nei «tag» attraverso i quali si sviluppa il libro: una società in cui le immense possibilità messe a disposizione dallo sviluppo tecnologico si accompagnino a un radicale ripensamento delle forme del lavoro e della distribuzione della ricchezza, in modo che la scomparsa sempre più veloce dell’occupazione come l’abbiamo sin qui conosciuta, arresti la lotta di classe dei ricchi contro i poveri, trasformandosi nell’opportunità (dal sapore marxiano) di condurre attività più stimolanti, sviluppando ciascuno la propria creatività.
De Masi è profondamente umanista da questo punto di vista e sembra ricalibrare il nuovo ruolo pubblico che i neo-intellettuali dovrebbero assumere, facendo appello (consapevolmente o meno) ad una vecchia eppure attuale posizione di uno dei più grandi sociologi del Novecento, uno di quelli che non ti aspetti, e che proprio la generazione di De Masi ha sottoposto alla più feroce critica: Talcott Parsons. Uno dei temi principali che ha mosso tutta la sua opera è infatti il ruolo fondamentale che il professionalismo assume (o dovrebbe assumere) nella società moderna: il professionista (un tipo sociale in parte vicino alle classi creative contemporanee) non si definisce solo in base alla sua competenza tecnica ma per il suo orientamento etico al bene del cliente\utente.

Il professionista – il cui paradigma è il medico – per Parsons è un argine e un elemento di quadratura del cerchio rispetto al dilemma, già chiaro nella società industriale, tra lo strapotere dell’interesse privato e le necessità di quello generale: il professionista nel trarre una remunerazione dalla vendita delle sue competenze si assume (o dovrebbe assumersi) una responsabilità sociale, collettiva, nel fare anche e soprattutto l’interesse del proprio cliente. Le istituzioni sociali e giuridiche dovrebbero incentivare questi orientamenti, attraverso i quali la razionalità tecnica si accompagna alla razionalità rispetto ai valori.

Ciò che sembra risultare dalla lettura di Tag è una posizione molto simile: anche per De Masi – come leggiamo alla voce «lavoro» – i nuovi professionisti dovrebbero andare al di là del loro recinto ristretto, riscoprendo e valorizzando la responsabilità etica collettiva (cosa che interesserebbe primariamente i manager, figure chiave del mondo contemporaneo). Ed ecco la critica: certamente il libro di Domenico De Masi non pretende minimamente di offrire soluzioni pronte per risolvere i problemi e tantomeno quello della secessione o «ribellione delle élite» rispetto alla società, come avrebbe detto Christopher Lasch. Il suo utile intento è quello di dare stimoli e suscitare dibattiti.

Eppure, in Tag si sente la mancanza di altre parole che aiuterebbero a sciogliere il nodo di quali siano le condizioni o i vettori del cambiamento, come istituzioni, movimenti o net-attivismo.
Nel libro di De Masi mancano insomma i soggetti del cambiamento e le condizioni per svilupparli. Forse, riflesso di una situazione, in particolare quella italiana ed europea, nella quale i processi di trasformazione in senso post-industriale e globale lasciano ancora «disorientati», testimoniando che abbiamo ancora le parole per affermare che, nonostante tutto, esistiamo ma non ancora quelle per raccontare il futuro, una parola che Domenico De Masi, non a caso, non include nella sua lista.