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Vi sono pratiche nella vita di un critico o di un curatore di arte contemporanea che sono sconosciute ai più e che costituiscono invece la sua quotidianità, addirittura i ferri del mestiere. Studio visit, conversazioni con artisti, l’osservare un’opera che nasce e cresce (o viene distrutta), discussioni intorno a concezioni, visioni e percezioni: sono tutte esperienze private a meno che non si elabori un progetto che proietti tutto ciò fuori dall’esclusivo processo cognitivo ed elaborativo degli attori del sistema dell’arte. E allora talk, documentari, interviste, scritti in catalogo, più raramente o forse mai progetti espositivi.

In tal senso, la mostra Intervallo di confidenza con Fabrizio Prevedello, Kristian Sturi e Michele Tajariol a cura di Daniele Capra, alla Galleria comunale di arte contemporanea di Monfalcone (visitabile fino al 1 maggio), consegna un percorso assimilabile al processo di costruzione del pensiero critico. Il progetto intende portare il visitatore nello spazio di azione dell’artista, nella sfera intima della realizzazione dell’opera, attraverso la relazione espositiva tra poetiche e modalità progettuali differenti, accomunate dalla pratica scultorea. L’espressione «intervallo di confidenza» usata in statistica per indicare il campo di variazione all’interno del quale ci si aspetta di trovare un parametro non noto, qui è assunta per «indicare quello spazio di lavoro insieme fisico e mentale entro cui l’artista si muove, l’area in cui le ipotesi di partenza – rispetto alla propria poetica, ai materiali, alle sintassi compositive – hanno un grado prevedibile di verificabilità», scrive in catalogo il curatore.

Valutando una mostra come terreno di riflessione guidata, si evidenzia come proprio dalla forma si apra il questionare intorno all’opera d’arte e alla sua creazione. Quanto è un atto controllato e quanta parte è esposta a variabili, errori o imprevisti da affrontare? La sedimentazione dell’opera si configura qui come il vissuto dell’artista nella relazione col suo lavoro, summa di un «agire gestito» o coscientemente subìto. La scultura è considerata come disciplina dalla pratica «basata sul fare, su un pensiero che è insieme dispositivo ed operativo, ossia meno vincolato da una progettualità rigida e stretta», afferma Daniele Capra.

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Paradossalmente, per comporre questo unicum concettuale la narrazione visiva della mostra è strutturata quasi fosse una «tripersonale»; per ciascuno è proposto un corpus di lavori capaci di raccontarne l’articolato percorso di ricerca – analizzato anche in tre saggi in catalogo, firmati da Davide Daninos, Marco Tagliafierro e Alice Ginaldi – così da guidare verso quel segmento esperienziale che deve combinare strumenti conoscitivi, sforzo intellettuale e un certo margine di fiducia critica in chi ci accompagna nella scoperta dell’arte.