Standing ovation ma anche qualche poltrona vuota (il documentario non attira la mondanità come la fiction) per la serata d’apertura del 54esimo New York Film Festival inaugurato all’Alice Tully Hall con la proiezione di The 13th, il nuovo lavoro della regista di Selma Ava DuVernay prodotto dalla piattaforma streaming Netflix, che lo renderà disponibile ai suoi abbonati a partire da venerdì prossimo.

Una scelta, quella del direttore Kent Jones, elaborata forse pensando più all’urgenza dell’attualità che al cinema. Il film di DuVernay (già autrice anche di un documentario su Venus Williams) porta infatti sul grande schermo, e con grande sicurezza, il corto circuito tra razza e sistema giudiziario da cui è sbocciato #BlackLivesMatter , che ha fatto esplodere le strade di Ferguson e Charlotte, trasformato Chicago in una polveriera e gettato i semi per il primo sciopero nazionale delle prigioni da anni a questa parte, verificatosi il 9 settembre scorso, in coincidenza con il 45esimo anniversario della rivolta di Attica.

Commissionato da Netflix alla regista, The 13th inizialmente doveva essere un film sull’incarcerazione di massa (gli americani corrispondono al 4% della popolazione mondiale; i carcerati Usa al 25% di quelli di tutto il mondo), un fenomeno che colpisce in particolare gli afroamericani (secondo il Sentencing Project, uno su tre maschi afroamericani passa un periodo della sua vita in prigione) e che è diventato materia di campagna elettorale (Clinton ha promesso una riforma giudiziaria) e una delle pochissime cause bipartisan al Congresso.

Ma, in corsa – ha spiegato la regista venerdì, dopo la proiezione stampa- il film è diventato altro, sviluppandosi secondo uno spettro molto più ampio. I suoi cento, fittissimi, minuti partono, infatti con immagini dell’America schiavista e, macinando Lincoln, David W. Griffith, emancipazione, ricostruzione, Jim Crow, movimento per i diritti civili, Nixon, la guerra alla droga di Reagan, l’epidemia del crack e i tre strikes di Bill Clinton, arriva a Hillary e Trump, e chiude sulle immagini strazianti delle morti ingiuste di Eric Garner, Philando Castile, Tamir Rice, Freddie Gray…Secondo un filo rosso in cui il sistema di oppressione degli afroamericani intrinseco all’istituzione della schiavitù non è venuto meno con il proclama di emancipazione, nel 1862, ma si è semplicemente evoluto, di decade in decade – la sua sopravvivenza resa possibile dall’emendamento della costituzione Usa che dà il titolo al film, il tredicesimo (ratificato nel 1865): «La schiavitù o la servitù involontaria non devono esistere negli Stati uniti, e nei territori di sua giurisdizione, eccetto come punizione di un crimine per cui l’interessato sia stato dovutamente condannato».

La tesi di 13 th, che combina materiali di repertorio a interviste con intellettuali, politici e attivisti – tra cui Angela Davis, Henry Louis Gates e Newt Gingrich – rispecchia in gran parte quella di The New Jim Crow: Mass Incarceration in the Era of Colorblindeness, il best seller di Michelle Alexander che, non a caso, è anche una delle presenze più forti del film.
Costruito come un puzzle, in cui i susseguirsi di causa ed effetto, in una progressione inevitabile che ci porta in-naturalmente all’oggi (oltre un milione di afroamericani in carcere; centinaia di migliaia che non possono votare o trovare lavoro perché ci sono stati), 13th ha in sé materiale per almeno dieci altri film. Infatti evoca, e attinge da, documentari che lo hanno preceduto come The Murder of Emmett Till, Broken on All Sides, The Central Park Five e Black Is Black Ain’t , di Marlon Riggs.

Per metterci tutto quello che ha trovato, e che le serve per rendere questo film un colpo allo stomaco per un pubblico il più vasto possibile, DuVernay accetta volentieri il rischio della superficialità e di essere didattica. Il suo non sembra un film nato con una tesi; ma, una volta che l’ha trovata, non vuole lasciare dubbi. Così, 13th è efficace, ma in esso solo raramente si intravede uno «sguardo» o si sente l’emozione del cinema. Ed è un peccato perché la sua ambizione non è troppo lontana dal libro di Ta-Nehisi- Coates Between the World and Me, del quale però a questo film manca tutta la trascendenza.