Erano in tredicimila, arrivati da tutta Italia e anche dall’estero, ad acclamare martedì sera all’Ippodromo delle Capannelle per il festival Rock in Roma, il duo più chiacchierato del momento – che poi duo non è più, visto che sul palco si fanno affiancare da due musicisti, al basso e alle tastiere e chitarre – per l’unica apparizione sul suolo italico del tour mondiale con il quale stanno presentando il loro ultimo lavoro discografico, l’ottavo della carriera, dal titolo Turn Blue.

Stiamo parlando dei The Black Keys, ossia Dan Auerbach (chitarra e voce) e Patrick Carney (batteria), che dagli esordi molto «alternative» e «indie», sulla scia di gente come White Stripes (è di poco tempo fa infatti la polemica scatenata da Jack White che li ha accusati di essere niente altro che dei cloni… per poi chiedere scusa e ritrattare), hanno pian piano allargato i loro orizzonti fino ad arrivare ad essere una vera e propria band da milioni di copie vendute in tutto il mondo.

Ma questa vena da rockstar in realtà sul palco, e su un palco grande come quello del Rock in Roma, non traspare affatto e resta invece quella vena, probabilmente indelebile, di band di nicchia, se non addirittura di culto, che forse avrebbero fatto meglio a mantenere e a coltivare, anziché lasciarsi andare all’inseguimento del successo «interplanetario». Tutta questa premessa semplicemente per raccontare di un concerto che avrebbe potuto essere ben altro, perché i brani che Auerbach ha creato e saputo costruire assieme al sodale Carney nel corso degli anni sono di assoluto livello, quasi tutti, anche se certamente non esattamente originalissimi – quasi, perché il singolo tratto proprio da Turn Blue, Fever, è una delle cose più scioccanti che si sono ascoltate negli ultimi mesi -, ma l’altra sera di tutto ciò se ne è avuta riprova solo parzialmente.

Una scaletta claudicante con la eccessiva differenza tra le nuove e le vecchie composizioni, ovviamente a favore di quest’ultime – e pause tra un pezzo e l’altro incomprensibili, e, soprattutto, un sound di insieme che non ha convinto, con i livelli dei vari strumenti mai ben bilanciati, e anche qualche piccola, lieve, ma percettibile, magagna tecnica, specie nel drumming di Carney che è sembrato in alcuni momenti avere qualche cedimento.

Auerbach dal canto suo ha provato fa rimediare, forse un po’ troppo tardi, quando buona parte dello spettacolo era ormai andato, e tutto si è ripreso verso il finale con una delle loro hit più conosciute e apprezzate, Lonely Boy, tratta dal precedente album, El camino, quello che li ha definitivamente consacrati come band non più «indie». Insomma, dai The Black Keys ci aspettavamo qualcosa di più e di meglio. Considerazione finale, poi anche una giustificazione, per una band la cui dimensione più appropriata è il club e non certo (o non ancora almeno) una grande arena. Ma probabilmente ne avremo la controprova già il prossimo inverno, giacché è stata annunciata una data al Mediolanum Forum di Milano per il prossimo 17 febbraio.