Donald Trump continua lungo la linea dell’attacco personale e dei colpi bassi. I toni civili, l’esposizione argomentata delle posizioni, il confronto nel merito fanno parte di un registro che gli è del tutto estraneo, come ha mostrato ancora una volta mercoledì sera a Las Vegas nell’ultimo dibattito televisivo con Clinton.

Ora che lo scontro è solo a distanza, di qui al voto, The Donald a maggior ragione non potrà che proseguire nel percorso di escalation conflittuale. Con quali possibilità di risalita? I sondaggi sono implacabilmente negativi per il magnate di New York. Un forte e crescente distacco lo separa dalla rivale democratica. I rilevamenti che precedevano l’ultimo dibattito erano per lui peggiori di quelli che precedevano il primo e il secondo duello.

E anche quelli a caldo, condotti dalla Cnn subito dopo il confronto a Las Vegas,  sostengono che pure questa volta ha prevalso Hillary.  Si votasse domani, insomma, Trump sarebbe spacciato, Hillary vincerebbe a valanga, una vittoria che trascinerebbe con sé il Partito democratico, consentendogli di strappare al Partito repubblicano la maggioranza nei due rami del Congresso.

L’unica speranza per Trump è che, oltre agli elettori che indefettibilmente continuano a sostenerlo, siano molti altri quelli che voteranno per lui anche se non lo diranno mai, neppure nel sondaggi, sommati a molti altri che, per una varietà di ragioni, non sono rilevati dai sondaggi stessi. Elettori indecisi silenziosi che alla fine gli daranno il voto, turandosi il naso.

Saranno in tanti, abbastanza da rovesciare i pronostici attuali? Scopriremo nell’Election Day che le uniche e ultime antenne ormai rimaste per cercare di capire in che direzione va il paese – i sondaggi appunto – sono inservibili? Possibile.

Può accadere anche questo, a novembre, un successo di Donald Trump contro tutte le previsioni, sia sul piano nazionale sia su quello degli stati chiave «ballerini».

Se invece andrà come tutto ormai lascia presagire?

Trump non rischia solo una sonora sconfitta. Ha messo in gioco, con la sua candidatura, il suo stesso brand che l’ha reso un uomo ricco, con una serie di operazioni finanziarie e immobiliari molto discutibili. Il marchio che gli ha consentito di entrare nell’agone politico come personaggio noto, un nome stampato su grattacieli delle metropoli statunitensi. Oltre a essere una celebrity televisiva.

La sua disfatta politica risucchierebbe nel gorgo della disgrazia anche il suo brand e il giro d’affari legati strettamente al marchio Trump. E nella spirale della caduta rischierebbe anche di finire sotto processo lui stesso. La vendetta dell’establishment repubblicano, di fronte a una sconfitta che coinvolgerebbe anche i candidati al Congresso, sarebbe implacabile. E troverebbero facile sponda nel Partito democratico, ovviamente.

Una simile prospettiva potrebbe consigliargli di mitigare i toni nei giorni che restano di qui al voto, se non altro nei confronti dei big repubblicani che gli remano apertamente contro e che Trump ricambia con valanghe di contumelie, considerandoli nemici ancor più che gli stessi democratici.

Una tregua sarebbe anche conveniente per gli stessi repubblicani. L’elettorato dei fedelissimi a Trump, su istigazione dello stesso candidato presidenziale, è pronto a non votare i candidati repubblicani che hanno voltato le spalle al loro beniamino. Trump, a sua volta, non può però fare a meno dei detestati repubblicani, specie negli stati in cui anche pochi voti possono fare la differenza.

Un abbassamento dei toni sia nei confronti della rivale sia nei confronti dei repubblicani sarebbe la vera October surprise di questa campagna presidenziale. Ma arriverebbe troppo tardi e sarebbe inutile.

Per questo nessuno crede a un «ravvedimento» di Donald Trump. Caso mai tutti s’aspettano il contrario.

Anche sul lato di Hillary, la traiettoria verso il voto di novembre non cambia, dopo il terzo e ultimo dei dibattiti presidenziali. Si è però notata, nella notte di Las Vegas, un’accentuazione ripetuta di temi sociali ed economici che sono nel bagaglio di Bernie Sanders, citato da Hillary Clinton con enfatica naturalezza.

In questo ultimo tratto di corsa presidenziale la ricerca dei voti a sinistra è un’evidente, imprescindibile priorità per la candidata democratica. Un cambio di passo che è accompagnato da un accresciuto protagonismo al suo fianco dei pezzi grossi democratici dell’ala progressista sia per confermare l’impressione di un partito coeso e unito dietro la candidata (l’opposto di quel che accade sul fronte avverso) sia per disegnare fin da adesso i contorni di una futura presidenza Clinton.

Dopo la presidenza carismatica di Obama, Hillary si proporrà piuttosto come la numero uno di una squadra di forti personalità, molto al femminile, con tratti marcatamente più progressisti, tali da creare una sua immagine nuova, diversa da quella con cui ha iniziato questa campagna elettorale e che la rende tuttora invisa a porzioni consistenti di elettorato di sinistra e di quello che nel 2008 le preferì Obama.

Anche per questo già si parla di un ruolo importante in una futura amministrazione Clinton da affidare a Michelle Obama. Gira anche il nome di Donna Brazile, africana americana, attuale presidente del Partito democratico. E di presenze come quella di Elizabeth Warren e di qualche personalità indicata da Bernie Sanders.

Insomma, già si pensa al 9 novembre, dando per scontato che sarà Hillary Rodham Clinton la prossima presidente.