«Immaginate John Ford rifatto da Tarkovsky» esclama Leonardo di Caprio con sintesi da tweet, quando lo incontriamo assieme ad Alejandro Iñarritu nei Lantana studios di Santa Monica. Abbiamo appena visto un’anteprima assoluta di una ventina di minuti di The Revenant il «western» che il regista messicano sta montando dopo epiche riprese durate un anno in Canada e Argentina (già assurte a mitologia hollywoodiana dopo l’articolo di Hollywood Reporter che ne ha riportato drammi e passioni). A giudicare dal materiale fresco di moviola che Iñarritu ha fatto vedere ad un gruppo della stampa estera comunque la valutazione di Di Caprio non sembra azzardata. Il film si apre con una scena travolgente, una spedizione di guerrieri indiani attacca un accampamento di lavoro di cacciatori di pelli sul ciglio di un fiume.

La battaglia è una razzia cruenta a colpi di frecce e carabine e poi all’arma bianca: una strage. Per girare la scena che ha impegnato 200 figuranti ci sono volute 2 settimane; il risultato è memorabile una full immersion a base di lunghi piani sequenza come quelli di Birdman (dietro la cinepresa c’è di nuovo il fedele collaboratore, Emmanuel «Chivo» Lubezki) ma in una scena di azione di straordinaria complessità.

L’universo visivo creato da Iñarritu nelle remote foreste canadesi rimanda al «nativismo» allucinatorio del New World di Terrence Malick. Quel film narrava il primo contatto dei conquistatori con il nuovo continente ai primi del ’600.

The Revenant è ambientato 200 anni dopo. «La storia si svolge attorno al 1820, un periodo poco conosciuto che ricercando ho scoperto affascinante», spiega Iñarritu fra boccate di una sigaretta elettronica fuori dalla saletta proiezioni. «Napoleone aveva appena ceduto con il Lousiana purchase l’immenso territorio che dal Mississippi giungeva fino al Pacifico. L’Oregon territory era ancora inesplorato da Lewis e Clark. Il Messico controllava ancora il sud ovest. Così la maggior parte del continente era un territorio senza leggi in cui convivevano messicani, francesi, avventurieri inglesi e centinaia di tribù indigene non ancora soggiogate, un luogo primoridiale in cui i cacciatori di pelli gettavano le basi per il capitalismo di mercato. E una prima industrializzazione delle risorse passava dalla commercializzazione delle pellicce per i mercati europei che preludeva allo sfruttamento su larga scala di legna e minerali e tutto il resto».

In questo capitolo dell’inserimento occidentale nel continente «vergine» la brutalità si alterna alla contemplazione mistica dell’immenso universo animista che stava per essere sottomesso. Iñarritu punta all’immersione sensoriale dello spettatore in una frontiera maestosa e ostile. La storia è liberamente adattata da quella vera del trapper e avventuriero Hugh Glass che riuscì a sopravvivere ad un brutale inverno marciando 200 km nella foresta dopo essere stato abbandonato dai compagni. Una specie di Aguirre al contrario, un’odissea in una natura elegiaca e mortale. Il viaggio in quella che il regista non a caso definisce una «Amazzonia congelata».

«Tuttavia ciò che mi interessava di più sono i meccanismi per cui uno riesce, è costretto a sopravvivere, al di là del semplice istinto. Cosa è che fa superare anche a un uomo che ha perduto tutto, l’inferno della avversità». Inferno è anche la parola usata dalla stampa hollywoodiana per descrivere le difficoltà delle riprese così complesse in località così remote. Il costo della pellicola originalmente previsto (90 milioni di dollari) è successivamente giunto a 130 milioni. Membri del cast (accanto a Di Caprio recitano Tom Hardy, Domhnall Gleeson e Will Poulter) hanno raccontato di giornate interminabili in condizioni estreme di freddo e fatica. Dopo una serie di diverbi il produttore Jim Skotchdopole sarebbe stato bandito dal set. «È stata senza dubbio l’esperienza più vasta e profonda della mia vita», commenta Iñarritu, abbiamo girato in ordine cronologico e questo ha permesso a tutti di imparare e prendere le giuste decisioni. Mentre andavamo avanti la storia veniva plasmata dagli elementi che ci confrontavano e che eravamo costretti a navigare. La nostra esperienza è finita per assomigliare a quella dei personaggi. I trapper vivevano e lavoravano in condizioni di inaudita fatica e pericolo, squadre di lavoro in campi remoti in territorio ostile pagati pochissimo. Anche se il razzismo viscerale nei confronti dei ‘selvaggi’ era all’ordine del giorno, molti avevano mogli indiane e famiglie meticce».

«Non c’è dubbio, è stata una dura prova delle nostre forze» aggiunge Di Caprio, ma tutti eravamo coscienti sin dall’inizio che stavamo per imbarcarci in un’avventura che ci avrebbe messo a dura prova. Facevamo prove meticolose per poter dar vita  alla visione di Alejandro e poi avevamo una finestra molto limitata di luce per poter effettuare le riprese – a volte solo un paio, e se non riuscivamo a completare la scena dovevamo tornare il giorno dopo e ricominciare da capo. La natura e stata coautrice di questo film».

«Abbiamo usato molti piani sequenza, spiega Iñarritu, perché in quelle condizioni è impossibile utilizzare un montaggio tradizionale con totali, primi piani e controcampi. La mutevolezza delle condizioni atmosferiche e della luce impediscono di accostare riprese fatte in momenti diversi. Tutto ciò comporta una attenta preparazione, e precise coreografie per ogni scena, e richiede che il cast e tutta la troupe siano del tutto concentrate nel momento. In questo senso è stato molto simile al lavoro in teatro: difficile ma anche straordinariamente appagante».

«Siccome parliamo di meteorologia, voglio aggiungere solo una cosa» dice Di Caprio a proposito di un tema che da sempre gli sta a cuore «Questo luglio è stato il mese più caldo di sempre. Il mutamento climatico sta ora avvenendo a velocità tre volte superiore alle previsioni anche solo di pochi anni fa. Il caldo ha fatto sciogliere imprevedibilmente la neve (per completare il film la troupe alla fine si è dovuta trasferire in Argentina, ndr). Allo stesso tempo il freddo è stato altrettanto estremo – fino a 25 sotto zero – di modo che gli attori non riuscivano a muovere le dita e le cineprese si bloccavano».

Un esercizio di cinema estremo e «organico», insomma, un cuore di tenebra ambientato nei luoghi di Jack London che se saprà mantenere nel final cut la forza vista negli stralci potrebbe essere uno dei film più coinvolgenti dell’anno.

«Quello che Alejandro oggi sa fare meglio di qualunque altro regista, conclude Di Caprio, è l’essenza del cinema: crea un esperienza sensoriale in cui lo spettatore può immergersi totalmente».