Il saggio di Thomas Piketty Le Capital au XXIe siècle è un fenomeno sia sociologico sia intellettuale. Cristallizza lo spirito della nostra epoca come fece, a suo tempo, The Closing of the American Mind di Allan Bloom. Quel libro, che denunciava gli studi sulle donne, sul genere e sulle minoranze nelle università statunitensi, opponeva la mediocrità del relativismo culturale alla ricerca dell’eccellenza associata, nello spirito di Bloom, ai classici greci e romani. Ebbe pochi lettori era particolarmente pomposo ma alimentava il sentimento di una distruzione del sistema educativo statunitense, e degli stessi Stati uniti, a causa dei progressisti e della sinistra. Un sentimento che non ha affatto perso vigore. Le Capital au XXIe siècle (Il Capitale nel XXI secolo) si inquadra nello stesso registro inquieto, a parte il fatto che Piketty viene dalla sinistra e che la controversia si è spostata dall’educazione al campo economico. Anche in materia di insegnamento, il dibattito si focalizza ormai sul peso dei debiti di studio e sulle barriere suscettibili di spiegare le disuguaglianze scolastiche.

L’opera traduce un’inquietudine palpabile: la società statunitense, come l’insieme delle società del mondo, parrebbe sempre più iniqua. Le disuguaglianze si aggravano e fanno presagire un futuro grigio. Le Capital au XXIe siècle avrebbe dovuto intitolarsi Le disuguaglianze nel XXI secolo.

Sarebbe sterile criticare Piketty per la sua incapacità di raggiungere obiettivi che egli non si era dato. Tuttavia, tesserne le lodi non è sufficiente. Molti commentatori si sono interessati al suo rapporto con Karl Marx, a quello che egli gli deve, e alle infedeltà, mentre occorrerebbe piuttosto chiedersi in che senso quest’opera chiarisca la nostra attuale miseria. E, al tempo stesso, vista la preoccupazione rispetto all’uguaglianza, non è inutile tornare a Marx. Confrontando questi due autori, si nota in effetti una divergenza: entrambi contestano le disparità economiche, ma prendono direzioni opposte. Piketty rimane nell’ambito dei salari, dei redditi e della ricchezza; vuole sradicare le disuguaglianze estreme e offrirci per parodiare lo slogan della primavera di Praga un capitalismo dal volto umano. Marx, al contrario, si pone sul terreno delle merci, del lavoro e dell’alienazione: vuole abolire queste relazioni e trasformare la società.

Piketty conduce una requisitoria implacabile contro le disuguaglianze: È arrivato il momento, scrive nell’introduzione, di mettere la questione delle disuguaglianze al centro dell’analisi economica. Nell’esergo del libro, egli scrive la seconda frase della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune. (Peraltro, viene da chiedersi perché un libro così prolisso trascuri la prima frase della Dichiarazione stessa: Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti.) Basandosi su una quantità di cifre e grafici, egli mostra che le disuguaglianze economiche aumentano e che i più fortunati si accaparrano una parte crescente della ricchezza. Alcuni si sono messi in testa di contestare queste statistiche; egli ha risposto punto per punto.

Piketty colpisce con forza nel segno quando tratta dell’esacerbarsi delle disuguaglianze che sfigurano la società, in particolare quella statunitense. Egli fa notare per esempio che l’educazione dovrebbe essere accessibile a tutti e favorire la mobilità sociale. Ma il reddito [annuo] medio dei genitori degli studenti di Harvard è dell’ordine di 450.000 dollari [330.000 euro], il che li pone fra il 2% più ricco delle famiglie statunitensi. Egli conclude la sua argomentazione con questo eufemismo caratteristico: Il contrasto fra il discorso meritocratico ufficiale e la realtà (…) sembra qui particolarmente estremo.

Per alcuni a sinistra, non c’è niente di nuovo. Per altri, stanchi di sentirsi dire continuamente che è impossibile aumentare il salario minimo, che non bisogna tassare i creatori di posti di lavoro e che la società statunitense rimane la più aperta del mondo, Piketty è un alleato provvidenziale. In effetti, secondo un rapporto (non citato nel libro), i venticinque gestori di fondi d’investimento meglio remunerati hanno guadagnato, nel 2013, 21 miliardi di dollari (16 miliardi di euro), ovvero più di due volte il reddito totale di circa 150mila insegnanti di scuola materna degli Stati uniti. Se la retribuzione finanziaria corrisponde al valore sociale, allora un gestore di hedge fund vale quanto 17mila maestri… È possibile che genitori (e insegnanti) non siano d’accordo.

Tuttavia, la fissazione esclusiva di Piketty sulle disuguaglianze presenta limiti teorici e politici. Dalla Rivoluzione francese al movimento statunitense per i diritti civili passando per il cartismo, l’abolizione della schiavitù e le suffragette, l’aspirazione all’uguaglianza ha certamente suscitato diverse sollevazioni politiche. In una enciclopedia della contestazione, la voce relativa occuperebbe diverse centinaia di pagine e rimanderebbe a tutte le altre voci. Ha giocato, e continua a giocare, un ruolo positivo essenziale. Basti pensare, anche di recente, al movimento Occupy Wall Street e alle mobilitazioni per i matrimoni omosessuali. Lungi dall’essere scomparso, questo tipo di rivendicazione ha trovato nuovo vigore.

Ma l’egualitarismo implica anche una parte di rassegnazione: accetta la società com’è, cercando solo di riequilibrare la ripartizione dei beni e dei privilegi. Gli omosessuali vogliono ottenere il diritto di sposarsi allo stesso titolo degli eterosessuali. Benissimo; ma questo non modifica affatto l’istituzione imperfetta del matrimonio, che la società non può far decadere né migliorare. Già nel 1931, lo storico britannico di sinistra Richard Henry Tawney sottolineava questi limiti in un libro che peraltro si schierava con l’egualitarismo (4). Il movimento operaio, scriveva, crede nella possibilità di una società che dà più valore alle persone e meno al denaro. Ma quest’orientamento ha dei limiti: Al tempo stesso, aspira non a un ordine sociale diverso, nel quale denaro e potere economico non saranno più il criterio della riuscita, ma a un ordine sociale dello stesso tipo, nel quale il denaro e il potere economico saranno ripartiti un po’ diversamente.. Ecco il cuore del problema. Accordare a tutti il diritto di inquinare è un progresso sul lato dell’uguaglianza, ma non lo è certo per il pianeta.

Evitare di pagare troppo gli universitari

Marx non assegna alcun ruolo all’uguaglianza. Non solo non ha mai preso in considerazione il fatto che i salari avrebbero potuto aumentare in maniera rilevante, ma anche se lo avesse fatto, ai suoi occhi il punto non era quello. Il capitale impone i parametri, il ritmo e la definizione anche del lavoro, di ciò che è vantaggioso e di ciò che non lo è. Anche in un regime capitalistico di forme agiate e liberali, dove il lavoratore può vivere meglio e consumare di più perché riceve un salario migliore, la situazione non è fondamentalmente diversa. Il fatto che l’operaio sia pagato meglio non ne cambia la situazione di dipendenza, come un miglioramento nel vestire, nel cibo, nel trattamento, o l’aumento del peculium non abolivano il rapporto di dipendenza e sfruttamento degli schiavi. Un aumento dei salari significa al massimo che la lunghezza e il peso della catena d’oro che il lavoratore dipendente si è forgiato da sé fanno sì che essa stringa un po’ meno.

Si potrà certo obiettare che queste critiche risalgono al XIX secolo. Ma Marx ha almeno il merito di concentrarsi sulla struttura del lavoro, mentre Piketty non ne fa parola. Non si tratta di sapere chi dei due abbia ragione sul funzionamento del capitalismo, ma di cogliere la base delle loro rispettive analisi: la ripartizione per Piketty, la produzione per Marx. Il primo vuole redistribuire i frutti del capitalismo così da ridurre lo scarto fra i redditi più elevati e quelli più bassi, mentre il secondo vuole trasformare il capitalismo ed eliminarne il dominio.

Fin dalla sua gioventù, Marx documenta la miseria dei lavoratori: dedica centinaia di pagine del Capitale alla giornata di lavoro tipo e alle critiche che essa suscita. Anche su questo soggetto, Piketty non ha niente da dirci, anche se evoca uno sciopero all’inizio del primo capitolo. Nell’indice dell’edizione inglese, alla voce Lavoro, si può leggere: Si veda “Divisione capitale-lavoro”. È comprensibile, perché l’autore non si interessa al lavoro in sé, ma alle disuguaglianze che derivano da questa divisione.

In Piketty, il lavoro si riduce all’ammontare dei salari. Gli scoppi di collera che qui e là affiorano nel suo scritto prendono di mira i ricchissimi. Egli fa notare ad esempio che la fortuna di Liliane Bettencourt, ereditiera dell’Oréal, è passata da 4 a 30 miliardi di dollari (da 3 a 22 miliardi di euro) fra il 1990 e il 2010: Liliane Bettencourt non ha mai lavorato, ma questo non ha impedito alle sue ricchezze di aumentare velocemente quanto quelle di Bill Gates. L’attenzione riservata ai più ricchi corrisponde perfettamente alla sensibilità della nostra epoca, mentre Marx, con la sua descrizione del lavoro dei panettieri, degli imbianchini e dei tintori pagati a giornata, fa parte del passato. La manifattura e le catene di montaggio scompaiono dai paesi capitalisti avanzati e si diffondono nei paesi in via di sviluppo, dal Bangladesh alla Repubblica dominicana. Ma non necessariamente un argomento vecchio è obsoleto, e Marx, focalizzandosi sul lavoro, sottolinea una dimensione quasi assente nel Le Capital au XXIe siècle.

Piketty documenta l’esplosione delle disuguaglianze, in particolare negli Stati uniti, e denuncia gli economisti ortodossi, che giustificano le enormi disuguaglianze nelle remunerazioni con le forze razionali del mercato. Egli rimprovera i colleghi statunitensi che tendono spesso a ritenere che l’economia degli Stati uniti funzioni piuttosto bene, e in particolare che ricompensi il talento e il merito con equità e precisione. Ma, aggiunge, non c’è da stupirsi, visto che anche quegli economisti appartengono al 10% dei più ricchi. Il mondo della finanza, al quale non di rado essi offrono consulenze, alza i loro stipendi, ed essi manifestano una tendenza incresciosa a difendere i loro interessi privati, dissimulandosi dietro un’improbabile difesa dell’interesse generale.

Per fare un esempio che non si trova nell’opera di Piketty, un recente articolo pubblicato nella rivista dell’American Economic Association si propone di dimostrare, dati alla mano, che le forti disuguaglianze dipendono dalla realtà economica. I redditi più elevati hanno competenze rare e uniche che permettono loro di negoziare a un prezzo forte il valore crescente del loro talento, conclude uno degli autori, Steven N. Kaplan, docente di economia dell’impresa e della finanza alla School of Business dell’università di Chicago. Con tutta evidenza, Kaplan ha bisogno di migliorare la propria condizione economica: una nota in fondo pagina ci informa che egli siede nel consiglio di amministrazione di diversi fondi d’investimento e che è stato consulente per società di investimento in capitali di rischio. Ecco l’insegnamento umanista del XXI secolo! Piketty spiega all’inizio del libro di aver perso le illusioni sugli economisti statunitensi insegnando al Massachusetts Institute of Technology (Mit), e che gli economisti delle università francesi hanno il grande vantaggio di non essere né molto considerati né pagatissimi: questo consente loro di tenere i piedi per terra.

Ma la controspiegazione che egli propone è quantomeno banale: le enormi disparità di remunerazione dipenderebbero dalla tecnologia, dall’istruzione e dalle abitudini. Le retribuzioni stravaganti dei superquadri, un meccanismo potente di aumento delle disuguaglianze economiche, in particolare negli Stati uniti, non possono essere spiegate con la logica razionale della produttività. Riflettono le norme sociali attuali, le quali dipendono da politiche conservatrici che hanno ridotto l’imposizione fiscale sui più ricchi. I proprietari di grandi imprese si attribuiscono stipendi enormi perché lo possono fare e perché la società ritiene queste pratiche accettabili, almeno negli Stati uniti e nel Regno unito.

Marx propone un’analisi ben diversa. Più che provare abissali disuguaglianze economiche egli cerca di scoprirne le radici nell’accumulazione capitalista. Certo, Piketty spiega che le disuguaglianze sono dovute alla contraddizione centrale del capitalismo: la disgiunzione fra il tasso di rendimento del capitale e il tasso di crescita economica. Nella misura in cui il primo sopravanza il secondo, favorendo la ricchezza esistente a scapito del lavoro esistente, si arriva a terrificanti disuguaglianze nella ripartizione delle ricchezze. Su questo punto Marx sarebbe forse d’accordo, ma, ripetiamo, egli si interessa al lavoro, perché lì si trovano l’origine e la manifestazione delle disuguaglianze. Secondo Marx, l’accumulazione del capitale provoca necessariamente disoccupazione, parziale, occasionale o permanente. Queste realtà, delle quali difficilmente si potrebbe contestare l’importanza nel mondo attuale, sono totalmente assenti nell’opera di Piketty.

Marx parte, ovviamente, da un altro principio: è il lavoro che crea la ricchezza. L’idea potrebbe sembrare desueta. Ma indica una tensione irrisolta del capitalismo: che ha bisogno della forza lavoro e al tempo stesso cerca di farne a meno. I lavoratori sono necessari alla sua espansione, ma se ne sbarazza per ridurre i costi, per esempio automatizzando la produzione. Marx studia a lungo il modo in cui il capitalismo genera una popolazione operaia eccedente relativa. Questo processo riveste due forme fondamentali: o si licenziano lavoratori, o si smette di incorporarne di nuovi. Di conseguenza, il capitalismo produce dipendenti eliminabili o un esercito di riserva di disoccupati. Parallelamente all’aumentare del capitale e della ricchezza, crescono sottoccupazione e disoccupazione.

Centinaia di economisti hanno tentato di correggere o confutare queste analisi, ma l’idea di un aumento della forza di lavoro eccedente sembra confermata: dall’Egitto al Salvador e dall’Europa agli Stati uniti, la maggior parte dei paesi soffre di livelli elevati o critici di sottoccupazione e disoccupazione. In altri termini, la produttività capitalista eclissa il consumo capitalista. Per quanto spendaccioni possano essere, i venticinque gestori di hedge fund non arriveranno mai a consumare i loro 21 miliardi di dollari di remunerazione annuale. Il capitalismo è gravato da quel che Marx chiama i mostri della sovrapproduzione, sovrappopolazione e iperconsumo. Da sola, la Cina può senza dubbio produrre abbastanza merci per alimentare i mercati europeo, statunitense e africano. Ma che accadrà alla forza lavoro nel resto del mondo? Le esportazioni cinesi di tessili e mobili verso l’Africa subsahariana si traducono in una riduzione di posti di lavoro per gli africani. Dal punto di vista del capitalismo, abbiamo un esercito in espansione, formato da lavoratori sottoccupati e da disoccupati permanenti, incarnazione delle disuguaglianze contemporanee.

Poiché Marx e Piketty vanno in direzioni diverse, è logico che propongano soluzioni diverse. Piketty, preoccupato di ridurre le disuguaglianze e migliorare la distribuzione, propone un’imposta mondiale e progressiva sul capitale, per evitare una divergenza illimitata delle disuguaglianze patrimoniali. Egli riconosce che quest’idea è utopica, ma la ritiene utile e necessaria: Molti respingeranno l’imposta sul capitale come una pericolosa illusione, proprio come poco più di un secolo fa accadeva all’imposta sul reddito. Quanto a Marx, non propone nessuna soluzione vera e propria: il penultimo capitolo del Capitale allude alle forze e alle passioni che nascono per trasformare il capitalismo. La classe operaia inaugurerà una nuova era nella quale regneranno la cooperazione e la proprietà comune della terra e dei mezzi di produzione. Nel 2014, anche questa proposta è utopica o redibitoria, a seconda di come si valuta l’esperienza sovietica.

Non si tratta di scegliere fra Piketty e Marx. Per parlare come il primo, si tratterebbe piuttosto di chiarire le differenze. L’utopismo di Piketty, ed è uno dei suoi punti di forza, riveste una dimensione pratica, nella misura in cui egli parla il linguaggio familiare delle imposte e della regolazione. Egli si affida a una cooperazione mondiale, e anche a un governo mondiale, per l’applicazione di un’imposta anch’essa mondiale che eviterà una spirale di disuguaglianze senza fine. Propone una soluzione concreta: un capitalismo alla svedese, che ha dato prova di sé riuscendo a eliminare le disparità economiche estreme. Non si sofferma né sul lavoro eccedente, né sul lavoro alienante, né sul fatto che la società ha per moventi il denaro e il profitto; al contrario, li accetta, e vorrebbe che noi facessimo lo stesso. In cambio, ci dà una cosa che conosciamo già: il capitalismo, con tutti i suoi vantaggi e meno inconvenienti.

La catena d’oro e il fiore vivente

In fondo, Piketty è un economista ben più convenzionale di quanto si pensi. Il suo elemento naturale sono le statistiche relative ai livelli di reddito, i progetti di tassazione, le commissioni incaricate di esaminare tali questioni. Le sue raccomandazioni per ridurre le disuguaglianze si riassumono in politiche fiscali imposte dall’alto. Si mostra perfettamente indifferente ai movimenti sociali che, nel passato, hanno potuto mettere in discussione le disuguaglianze e potrebbero nuovamente giocare questo ruolo. Sembra anche più preoccupato dell’incapacità da parte dello Stato di ridurre le disuguaglianze, che delle disuguaglianze propriamente dette. E, benché egli evochi sovente, a giusto titolo, alcuni romanzieri del XIX secolo come Honoré de Balzac e Jane Austen, la sua definizione di capitale rimane troppo economica e riduttiva. Egli non si occupa del capitale sociale, delle risorse culturali e del saper fare cumulati, di cui beneficiano i più agiati e i loro discendenti. Un capitale sociale limitato condanna all’esclusione quanto un conto in banca vuoto. Ma anche su questo punto, Piketty non ha niente da dirci.

Marx ci dà al tempo stesso di più e di meno. La sua invettiva, benché più profonda e più vasta, non offre alcuna soluzione pratica. Lo si potrebbe definire un utopista anti-utopista. Nella postfazione alla seconda edizione tedesca del Capitale, egli rimprovera quelli che vogliono scrivere delle ricette per le bettole del futuro. E, benché dai suoi scritti economici si delinei una visione, essa non ha grandi rapporti con l’egualitarismo. Marx ha sempre combattuto l’uguaglianza primitivista, che si traduce in povertà per tutti e mediocrità generale. Se riconosce la capacità del capitalismo di produrre ricchezza, ne rifiuta il carattere antagonista, che subordina l’insieme del lavoro e della società alla ricerca del profitto. Più egualitarismo non farebbe che democratizzare questo male.

Marx conosceva la forza della catena d’oro, ma riteneva che fosse possibile spezzarla. Che cosa sarebbe successo in questo caso? Impossibile dirlo. La migliore risposta che Marx ci abbia offerto si trova forse in un testo giovanile dove egli se la prende con la religione e, già allora, con la catena coperta da fiori immaginari: La critica ha fatto cadere i fiori immaginari che ornano la catena, non perché l’uomo porti una catena senza sogno né consolazione, ma perché se la scrolli di dosso e raccolga il fiore vivente.

* Russell Jacoby è docente di storia all’università di California a Los Angeles. Autore, in particolare, di The Last Intellectuals (1987), The End of Utopia (1999) e, più recentemente, del saggio Les Ressorts de la violence. Peur de l’autre ou peur du semblable?, Belfond, Parigi, 2014.

Traduzione di Marinella Correggia

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