«Sono vent’anni che si combatte, in Italia. Vent’anni che due forze avverse, l’una di progresso e rivoluzione, l’altra di conservazione e reazione, si affrontano e misurano». Così iniziava Palmiro Togliatti uno dei suoi più celebri scritti, l’editoriale per la nuova serie di Rinascita, inaugurata nel ’62. Dall’avvio della Resistenza, su su fino all’alba del centro-sinistra, era in corso di svolgimento un conflitto dalle radici antiche. L’allora segretario comunista, di cui oggi cade il cinquantesimo anniversario della scomparsa, individuava tuttavia un dato di profonda cesura rispetto alla tradizione della lotta politica italiana. Se nel 1848, poi sul finire del secolo XIX, e più ancora nel primo dopoguerra con l’avvento del fascismo, le forze «di conservazione» avevano potuto distorcere il pieno dispiegarsi del conflitto in base a soluzioni scopertamente reazionarie, a partire dalla guerra di Liberazione non era stato più possibile, per le classi dirigenti tradizionali, ricorrere a simili ricette. Cosa era accaduto? Era intervenuto – proseguiva lo scritto – «un fatto che non può più e non potrà mai essere cancellato». E cioè che «le classi popolari sono diventate, in un momento decisivo della storia nazionale e della vita dello Stato italiano, protagoniste di questa vita e di questa storia».
Con la Resistenza, insomma, i ceti subalterni avevano fatto irruzione per la prima volta nella storia del Paese da protagonisti. E i partiti di massa, in special modo quelli del movimento operaio, avevano poi fatto sì che questa irruzione avvenisse «dal basso», e costituisse la linfa per l’edificazione di un sistema democratico pluralista. L’esatto contrario di quanto era avvenuto col fascismo, che aveva piegato la «massificazione» alle esigenze di edificazione di un progetto passivo, verticistico e totalitario.
La potenza dell’affresco tratteggiato da Togliatti in quell’ormai lontano editoriale può ancor meglio esser compresa, per così dire, post res perditas. Il legame tra irruzione delle masse popolari nella vita e nella storia dello Stato e progresso dell’intera nazione ci appare del tutto evidente oggi: con quelle stesse masse popolari espulse dallo scenario politico, ridotto a gioco a somma zero tutto all’interno dei gruppi dirigenti, progetti di riduzione degli spazi democratici e di parallela riduzione delle conquiste dei ceti subalterni hanno proceduto di pari passo, più o meno indisturbati. Rappresenta dunque un esercizio ricostituente, a distanza di più di cinquant’anni, rileggere le parole di Togliatti. Viviamo una fase in cui si è pensato di poter sopperire con l’happening domenicale delle primarie allo sfarinamento di un intero «blocco storico»; di poter fare invertire la rotta a coalizioni politiche caratterizzate da un ben determinato imprinting sociale con un po’ di «narrazione»; di poter far «cambiare di segno» alle politiche restrittive varate dalla trojka con elucubrazioni vagamente keynesiane – sarebbe come chiedere la Repubblica a Luigi XVI, è la battuta che circola tra gli economisti eterodossi più avveduti. Ma si è perso completamente di vista il dato centrale ben presente a Togliatti, quello dell’essenzialità della pressione dal basso da parte delle classi subalterne in vista della conquista e della stabilizzazione di nuovi spazi di democrazia e di avanzamento sociale. Una pressione, giova sottolineare, che veniva a dispiegarsi sulla scorta di un’analisi concreta della struttura della società, nelle sue diverse articolazioni economico-ideali, e di un preciso disegno politico progressivo. Il rigoroso esame dei rapporti di forza politico-sociali, che traluceva dalla dinamica storica della lotta di classe, ne era quindi il necessario complemento.
Alla leggerezza del carattere nazionale, da cui conseguiva la faciloneria e il dilettantismo che riducevano la politica a «momento passionale» e «meschina mostra di abilità», Togliatti oppose un approccio scientifico e quindi pedagogico che davvero poco spazio lasciava al fideismo odierno per il leader. La conoscenza, nel suo essere strumento di consapevolezza e coscienza critica della realtà, era emancipazione. L’erudizione stessa di cui spesso dava sfoggio risuonava a rivendicazione della possibilità, per il movimento operaio, di impossessarsi della parte migliore del patrimonio culturale nazionale. Attraverso questa capillare opera di acculturazione, i ceti subalterni si preparavano a diventare «classe dirigente». La politica, intesa come studio, lavoro, lotta, ed anche sacrificio, andava quindi a collocarsi al vertice delle attività umane.
Uno dei peculiari contributi creativi di Togliatti risiede proprio nel principio – oggi disapplicato – della politica come scienza. Un principio che il marxismo aveva contribuito a fondare, e del quale oggi la sinistra, in preda agli irrazionalismi del primitivismo politico, sembra avere ancor più bisogno. Della feconda eredità politica ed intellettuale di Togliatti parrebbe oggi persa ogni traccia, benché sia stato uno degli statisti che più a fondo, con maggiore audacia, e maggiore lungimiranza, hanno interpretato le aspirazioni di emancipazione e progresso dei ceti subalterni italiani.