Nel 1930 appaiono su una piccola rivista abruzzese, «Vigilie letterarie», due scritti di Tommaso Landolfi: il primo, un racconto, Maria Giuseppa, è una variazione sulle dostoevskiane Memorie dal sottosuolo, mentre il secondo è una recensione della traduzione italiana di un’opera di Turgenev, Il Re Lear delle Steppe. In questi scritti c’è già tutto il futuro Landolfi scrittore e slavista, allora ventiduenne studente a Firenze nella Facoltà di Lettere e in procinto di laurearsi con una tesi su Anna Achmatova. C’è l’inesausto rimuginìo di insolubili enigmi metafisici da parte di chi si sente fuori posto e anzi del tutto superfluo e c’è l’idea che la letteratura russa sia come uno specchio in cui ci si possa riconoscere o smarrirsi irrimediabilmente.
Per tutta la vita Landolfi avrebbe guardato alla Russia come a un’ideale patria letteraria. Tenendosene però a debita distanza. Sarebbe andato, sì, a caccia di manoscritti puskiniani al British Museum di Londra, e sapeva di poter trovare a Padova nella biblioteca di Ettore Lo Gatto quel che cercava, senza però che in Russia ci mettesse mai piede. La Russia doveva restare per lui un’utopia. Un luogo d’incantamenti e di deliri, non un luogo reale. Rispetto alla mole di letture fatte e alla competenza accumulata, le pagine dedicate alla letteratura russa non sono moltissime. Ma sufficienti per rendere il senso della ricerca landolfiana. Ne I Russi (pp. 365, euro 30,00), libro ottimamente curato da Giovanni Maccari, Adelphi le raccoglie tutte offrendo al lettore una bella occasione d’incontro con chi avrebbe potuto essere un grande studioso di slavistica (gli fu anche offerta una cattedra, che rifiutò), ma preferì dedicare a questa disciplina un’attenzione trasversale, da scrittore che dialoga con gli scrittori a lui congeniali.
Ora, in che cosa consiste secondo Landolfi l’essenza della letteratura russa? Quale il suo carattere specifico? Il carattere specifico della letteratura russa, risponde Landolfi nell’introduzione ai Narratori russi, Bompiani 1948, è di non averne nessuno. Non solo e non tanto nel senso del suo sottrarsi alle classificazioni e alle generalizzazioni, ma semmai in quello del suo tendere al fantasmatico e all’allucinatorio fino alla cancellazione di qualsiasi confine. «Gli spettri della ragione, i mostri dell’immaginazione, in una parola ciò che si chiama male o peccato, in nessuna letteratura sono presenti come in questa, che veramente figura il loro trionfo. Ma non trionfo sulle forze del bene: al contrario, al loro medesimo titolo. È piuttosto un’orgia rappresentativa, un delirio del cuore e al tempo stesso della ragione, che solo in quanto tali presuppongono una morale».
Oblomov è la perfetta incarnazione di tutto ciò. In Oblomov il male assume una forma peculiare: l’ignavia. Ignavo è colui che ricade nel male, quasi scivolandovi dentro senza volerlo e senza neanche accorgersene, mentre presume di starne fuori e anzi di collocarsi al di là del bene e del male. Costui, come Oblomov, sa che qualunque cosa faccia l’uomo è malfatta, e allora non fa niente, e neppure impedisce di fare, ma lascia fare… Ed ecco generarsi da quella abietta noluntas tutto il corteo di figure spettrali che rappresentano la vita dal lato della morte e del non essere: credono di essere vivi, quelle larve o lemuri o fantasmi, ma la vita li ha da tempo abbandonati, ammesso che una vita l’abbiano mai avuta. Landolfi chiama «oscitanza russa» quel vagheggiare e quel vaneggiare espressi da Oblomov in modo esemplare e da lui portati fin sulla soglia di una vera e propria «volontà di annullamento, di caos originario»: che però non spengono (come in Schopenhauer) il male di vivere, ma lo rigenerano nel più raffinato dei tormenti, l’ozio. L’oblomovismo è una macchina che produce in modo pressoché inesauribile vita apparente, vita mancata, vita che non è vita. Questo spiega perché «i grandi russi non si son mai obliati fino a ricercare l’umanità nelle sue più meschine e ignobili, direi meccaniche, manifestazioni. Dell’uomo, non c’è ignominia che non possano sorprendere e svelare; ma a patto che non sia una inerte vergogna, un sordo dato, che abbia almeno nobiltà rappresentativa o poetica».
E questo spiega il fascino della poesia di Puškin, la sua fortuna. Svela il suo segreto: che si palesa proprio là dove Puškin eleva a dignità poetica e conferisce massima solennità a quanto c’è nella vita di più minuto, marginale e anche spregevole, estraniando la realtà dal tempo ed eternizzandola. Accade così che l’universalmente umano si concreti in tipi in cui tutti si riconoscono, e non importa se questi tipi siano alti o bassi, simpatici o antipatici, benevoli o malevoli. Importa che siano riconoscibili. Per l’appunto riconoscibili in forza della poesia. Che è come dire: la realtà di per sé non vale nulla. Ma giunge a valere tutto e più di tutto dopo che il genio poetico l’ha salvata dall’insignificanza. Donde il sospetto che s’insinua e che costringerà d’ora in avanti a guardare alla realtà come a qualcosa di costruito (costruito poeticamente) e che dunque non ha consistenza se non umbratile e fantasmatica.
Viene da qui l’idea che tutta la letteratura successiva a Puškin venga da lui, come sua filiazione diretta o indiretta. Come nel caso di Gogol’: il quale non fa che spoetizzare il poetico puskiniano. Gogol’ prende bensì i suoi personaggi dalla vita, ma dalla vita così come l’aveva raccontata in poesia Puškin. I materiali su cui lavora Gogol’ sono materiali letterari. È la letteratura a far da filtro, anzi, a togliere l’involucro poetico a quegli innumerevoli esseri tipizzati (da Puškin) per mostrarceli nella loro nudità di anime morte. L’arte di Gogol’ è tributaria di quella di Puškin: ma lo è come quella di un figlio che ripudia e anzi uccide il padre. E se Puškin aveva portato la Russia tutta quanta in un suo Olimpo né pagano né cristiano ma semplicemente poetico, Gogol’ la sprofonderà in un inferno su cui il cristianesimo incrudelirà come mistica nostalgia dell’impossibile. La fine tragica di Gogol’ ne è la conferma.
Tra Dostoevskij e Turgenev, secondo Landolfi, si assiste alla ripetizione di quanto era accaduto tra Puškin e Gogol’. Turgenev riesce a fare in prosa quel che Puškin ha fatto in poesia: consegna il temporale all’eterno, dando alla realtà una dignità che di per sé non ha, una dignità di secondo grado. Una specie di magia. Tant’è vero che il suo realismo è a suo modo romantico (tutta la letteratura russa per Landolfi è inguaribilmente romantica) e magico (la definizione non è di Landolfi, ma potrebbe esserlo tranquillamente). Viceversa Dostoevskij si ispira a Gogol’: «Stiamo tutti sotto il mantello di Gogol’», diceva Dostoevskij. Dostoevskij smonta la magia. Mette a nudo la realtà. Al punto che il suo realismo diventa iperrealismo. In ogni caso l’alternativa è precisamente quella che Landolfi aveva prospettato nel suo saggio d’esordio, affermando né più né meno che Turgenev salva e invece Dostoevskij porta a perdizione: «Noi della nuova generazione dobbiamo il nostro culto a Ivan Sergeevic (Turgenev) che solo può salvarci: nelle mani di Fëdor Michailovic (Dostoevskij) saremmo irremissibilmente perduti».
Non molto diversa la contrapposizione novecentesca fra simbolismo e realismo sovietico. Con una differenza, però, se non anche uno scambio delle parti. Il simbolismo propone una salvezza che è puramente illusoria. A sua volta, il realismo sovietico dà voce a illusioni a lungo covate nel profondo dell’anima russa, ma che non vogliono saperne di morire.