La voce di Toni Maraini è dolce e profonda, lieve e delicata ma pronta ad indurirsi in inflessioni asprigne o a curvarsi in argentee risate. Parlare con lei è come leggere i suoi libri, si ha subito la certezza di avere di fronte una donna colta, dallo spirito vivacissimo, i cui viaggi, la cui vita e le cui esperienze si incrociano con storia, arte e filosofia, tutto guidato da un senso critico incline all’approfondimento a tutto tondo. Mediterraneo, Maghreb, geopolitica e religione, cultura e tradizione, i suoi sono incontri e ascolti, itinerari di un sentire scosso dalle notizie di un mondo cangiante.

Così Toni Maraini, saggista, poetessa, storica dell’arte, docente universitaria e scrittrice, affronta il momento storico poco propenso alla visione di un Islam ecumenico, con un bagaglio di oltre venti anni vissuti in Marocco. Lei, a cui è stata conferita La Palme de Marrakech nel 2008 per i suoi scritti sull’arte del Maghreb, parla di “un mondo musulmano travagliato e sofferto”, che l’Occidente guarda come un’entità unica, priva della complessità insita nella natura di tutte le religioni.

Nel suo ultimo libro Ballando con Averroè (ed. Poiesis), il filosofo diventa anello di congiunzione, un viatico verso la riconciliazione che cammina sulle orme delle similitudini culturali tra Oriente e Occidente.

Nel suo libro lei racconta che per volontà dello stesso Averroè le sue spoglie furono trasportate a Cordova da Marrakesh su un mulo. L’animale portava il corpo del filosofo e i suoi manoscritti, da lui scelti personalmente. L’immagine appare chiara metafora del peso e del valore della figura del protagonista del libro e della cultura in generale.

La storia è vera, ma, in effetti è anche una metafora. In previsione della sua morte, Averroè aveva fatto preparare uno di quei grandi panieri doppi che si mettono a tracolla di un animale da soma. In quello d’un lato, aveva posto i suoi manoscritti, nell’altro, aveva predisposto che fosse messo il suo corpo, da trasportare sino alla natia Cordova. Tre mesi dopo la sua morte – avvenuta nel 1198 a Marrakesh, dove era stato sepolto – il suo corpo fu riesumato e un mulo (anzi, una mula) trasportò il venerabile carico sino a Cordova. All’arrivo della mula, tra quanti s’erano radunati per rendere un estremo omaggio ad Averroè, era presente il giovane Ibn ‘Arabi, che ha lasciato una toccante testimonianza. A controbilanciare il cadavere del Maestro, c’erano i libri; dopo aver percorso lo spazio tra due continenti, entravano con tutto il loro peso nella storia del pensiero universale. Averroè non fu soltanto il sommo commentatore di Aristotele ma una grande figura di filosofo, astronomo, medico (il suo Colliget per vari secoli venne usato nelle università europee) e altro ancora. Non è il protagonista di tutti i testi del mio libro, ma il suo messaggio lo è: il primato della ragione, il ruolo di conoscenza e cultura nell’attraversamento d’ogni frontiera.

Lei ha vissuto, approfondito e studiato il Maghreb, è giusto parlarne come di cultura “altra”?

No, è sbagliato. Nel Mediterraneo le civiltà hanno tutte dato e preso qualcosa l’una dall’altra (arti, tecniche, scienze, saperi, prodotti ecc.), sono state tutte segnate da grandi coordinate comuni sin dall’Antichità, se non dalla Preistoria, e l’alterità si misura in gradi diversi di elaborazione, selezione o sincretismo. E, poi, rispetto a quale paradigma definire “altra” una cultura? Siamo tutti “l’altro” dell’altro, ma mai totalmente estranei o diversi. L’ignoranza è ciò che ci estranea. Averroè ha scritto “l’ignoranza genera la paura, la paura l’odio, l’odio la violenza”. Certo, all’interno d’ogni cultura esistono usanze e particolarismi locali, fasi di regressione e violenza, ma il proprio delle rispettive civiltà è di travalicarli e superarli. È questo l’orizzonte di dialogo cui ancorarsi oggi.

Come considera l’attuale politica interculturale (mostre, convegni, ecc.) sul Mediterraneo dell’Europa?

Da tanto l’Europa gira le spalle al Mediterraneo. In Italia sono stati tolti fondi a progetti e strutture dedicati a cultura e inter-cultura. La conferenza di Barcellona del 1995 aveva annunziato la creazione di un Partenariato Euro-Mediterraneo e ‘benessere condiviso’ ma, ha scritto l’economista Bruno Amoroso “le cose sono andate nella direzione opposta e segnato l’inizio di un periodo di destabilizzazione, miseria crescente e guerre”. Altro che politiche interculturali! Il Mediterraneo è militarizzato, inquinato e destabilizzato da una insensata politica tra il Nord e il Sud del mondo… Ed è un mare-cimitero. Se però esiste su entrambe le rive un lavoro interculturale di fondo, a controcorrente di tutto questo, è grazie a un grande sforzo dal basso, più che istituzionale, di persone, associazioni, gruppi, iniziative, progetti che meritano maggiore sostegno e visibilità.

Perché da questa sponda del Mediterraneo non arrivano le notizie dei fermenti culturali provenienti dall’altra riva, contribuendo ad un immaginario di arretratezza?

Bella domanda! Tante e diverse sarebbero le risposte… A partire da una pregressa ignoranza storico-culturale dell’Italia verso l’altra sponda, e da una buona dose di presunzione, stereotipi, superficialità. Antropologia culturale, sociologia, storia insegnavano che per parlare di un’area culturale bisognava conoscerla sul terreno, esserne adeguatamente informati ecc. Tutto ciò prende tempo; allora, fioriscono opinionisti e improvvisati addetti ai lavori, mentre i media si occupano più di ciò che fa notizia in negativo e alimenta il clima di paura che di cultura. Questo crea un vuoto – e notizie dalle fonti non sempre chiare o approfondite – aggravato dalla latitanza degli specialisti e la mancanza di figure che facciano da ‘ponte’, nonché dal fatto che l’Europa da tempo gira, appunto, le spalle al Mediterraneo (non quando si tratta di sfruttarne le risorse…). Ma, poi, si vuole veramente relazionarsi con le realtà positive e i fermenti culturali dell’altra sponda? Eppure sono quelli con i quali unirsi contro fanatismi e fondamentalismi. Ribadire stereotipi non aiuta (non dimentichiamo la parabola della trave e del fuscello… ); individuare cosa porta oggi a nuove arretratezze sul piano mondiale sarebbe più utile.

Lalla Ftuma, personaggio del libro, dal cuore semplice e dalla religiosità popolare tradizionale, è il simbolo di quella cultura ecumenica andata persa con gli ultimi conflitti. La geopolitica internazionale ha cancellato totalmente tale propensione nel moderno Islam?

Andiamoci piano! La cultura ecumenica popolare di fondo non è affatto persa… Basta entrare nelle case o condividere un tè con le tantissime Lalla Ftuma… Certo, le ripercussioni di una ‘globalizzazione non negoziata’ hanno, come scrive un economista algerino, acuito i problemi sociali e fomentato gruppi armati, ma la geopolitica internazionale ha davvero ‘cancellato’ l’islam moderno e secolare? Ce l’ha messa tutta!… ma ha piuttosto favorito una fase drammatica di conflittualità tra diversi progetti di società. Questo ha però stimolato un fibrillante lavoro di donne e uomini, associazioni e correnti politiche e di pensiero, un fiorire di dichiarazioni, libri, studi, progetti ecc. E’ per esempio sintomatico che in Marocco, dove Averroè visse e morì, e dove oggi gli vengono dedicati studi, dibattiti e incontri – non ultimo quello di recente organizzato da un’associazione di giovani su ‘Averroè e il bene pubblico’ dedicato, non a caso, alla memoria di Fatima Mernissi… – in tante e tanti difendono lo stato di diritto, il primato della ragione, una modernità faticosamente conquistata proprio in nome di Averroè. Benché questo tipo di realtà sia qui del tutto ignorata, opera per contrastare gli effetti e le correnti ideologiche estremiste sorte dallo sfacelo di trent’anni di guerre devastanti rafforzanti regimi e populismi. Non dimentichiamo cosa ha fatto seguito al primo bombardamento di Baghdad e alle guerre contro il cosiddetto Asse del Male foriere di regressioni, immani tragedie e rovine. A ben vedere, oggi è il mondo musulmano ad avere paura. Paura delle ricadute delle strategie mondiali, e paura di gruppi che, usurpando vergognosamente il nome della religione, minacciano i musulmani stessi. La situazione è grave, e molto confusa. Bisognerebbe andare a monte dei problemi e dire alcune scomode verità su chi fomenta cosa, quali strategie sono in atto… E non sempre attribuire tutto all’islam. Io uso oggi questo termine con cautela…

…Perché?

Il mondo musulmano è vasto e complesso, con grandi divari e varianti tra un’area e l’altra, diverse correnti politiche, religiose, giuridiche e ampi settori di secolarismo e laicità a seconda della nazione. Tutto questo, e quanto riguarda più specificatamente oggi conflitti sociali e politici, può essere rinchiuso nel solo termine ‘islam’? Per parlare dell’Europa ci riferiamo unicamente a ‘cristianità’ o cristianesimo, tiriamo in ballo la religione per analizzare le malefatte della criminalità organizzata, dei gruppi estremisti, dei delitti quotidiani, delle violenze belliche, delle odierne crisi sociali e derive populiste? No. A riguardo del mondo musulmano, invece, si tralascia ogni analisi articolata e riconduce tutto sempre al parametro religioso, visto con astio e sospetto come entità monolitica e immutabile, anche se da più di un secolo conosce importanti correnti critiche, riforme moderniste e spinte di rinnovamento (tağdid). Si potrebbero leggere a proposito autori come ‘Abderraziq, Charfi, El Ashmawi, Arkoun o Fatima Mernissi, o più semplicemente la lunga lettera del Gran Mufti d’Egitto, pubblicata l’aprile 2015 su ‘Le Monde’, in cui denuncia le violenze dei terroristi, parla di ecumenismo interreligioso, ricorda quanto fatto per “riconciliare l’islam con il mondo moderno”, separare fede da politica e così via. Al momento delle indipendenze, la maggior parte degli stati si dotò d’altronde di Costituzioni e istituzioni moderne, sindacati, scuole pubbliche, ecc., modificò o abolì la shari’a, giudicata somma interpretativa simile al nostro diritto canonico e, pertanto appunto, modificabile. Dopotutto, è passato soltanto mezzo secolo dalla decolonizzazione; per portare avanti riforme e sviluppo sociale ci vuole tempo, pace, cooperazione tra le nazioni… Ma per tornare alla domanda iniziale, è un fatto che a solo pronunciare qui il termine ’islam’ l’interlocutore s’irrigidisce, si insospettisce, sciorina giudizi da disputa medievale… Più saggio è parlare di un mondo musulmano oggi travagliato e sofferto, sì, ma in cammino coi suoi gelsomini nonostante il gran clamore dei tragici eventi.

Il libro parla di viaggi ma è anche un viaggio linguistico con incursioni nella memoria che è anche storia, tutto sembra tornare e ricongiungersi.

Proprio cosi! Ed è quello che cerco di documentare prima che la disastrosa gestione dei grandi problemi attuali rischi di vanificare memoria, storia e orizzonti di civiltà.

Cosa è il viaggio oggi e come viverlo con tutte le barriere fisiche e culturali che si stanno nuovamente innalzando?

Forse ebbe a suo tempo ragione, più di mezzo secolo fa, l’antropologo Claude Lévi-Strauss nel dichiarare che l’era dei viaggi era finita. Lui parlava dei viaggi ‘lenti’ e esplorativi di studio, conoscenza, scoperta. Era subentrata, per giusta logica democratica, quella dei viaggi turistici a tutti possibili, ma più edonistici e ‘fast’ che ‘slow’. Fase importante, anche se acceleratasi con spostamenti e soggiorni a pacchetto che non sono più veri ‘viaggi’. Andare a Katmandu in autostop come negli anni ’60 ed essere ovunque accolti con ospitalità? Impensabile. Oggi, che numerose zone del mondo sono state scardinate, s’apre un’altra era… Forse quella del viaggio virtuale con occhiali 3D al quale opporre un nuovo stile di viaggi lenti, magari a piedi, o nell’entroterra locale?!… Comunque, si continua legittimamente a viaggiare laddove si può, e a parlare più che mai di viaggi.

Io però trovo eticamente impropria una certa patinata retorica sui ‘nostri’ viaggi allorquando per gli storici futuri i soli viaggiatori che avranno lasciato un segno nella Storia degli inizi del XXI secolo saranno coloro che in milioni hanno faticosamente camminato dal fondo dell’Asia o dell’Africa, rischiato di morire alle frontiere, perso la vita nel Mediterraneo (in migliaia, con donne e bambini) o sono finiti in una moltitudine di campi, perlopiù extra-europei. L’etnologo francese Michel Agier ha scritto a questo riguardo un libro dal titolo eloquente ‘Un mondo di Campi’ (‘Un monde de Camps’). Gli storici del futuro parleranno del nostro periodo come quello dei viaggi impossibili, perigliosi, crudeli, confinati (ma perché?) nell’ illegalità, di gente, ormai più profughi che altro, che non vuole invaderci ma spera poter tornare un giorno alle proprie case e si ritrova tragicamente sballottata nell’inadeguatezza di politiche che sembrano incapaci di gestire quanto già da tempo prevedibile. Gli storici non si interesseranno ai nostri bei discorsi e festival sui viaggi ma cercheranno di capire cosa portò il mondo a questi processi ed esodi proprio quando la mondializzazione sembrava ravvicinarci tutti su Terra e prometteva equi sviluppi regionali e internazionali. Se saranno onesti, diranno quelle verità che l’Occidente, come Ponzio Pilato e pur avendo le sue responsabilità (‘guerre infinite’, interessi multinazionali, land grabbing, armi, ‘somalizzazione’ di intere aree), preferisce eludere.

Tra i tanti suoi libri c’è anche Diario di viaggio in America – Tra fondamentalismo e guerra; cambiando semplicemente il luogo del titolo si potrebbe leggere Viaggio in Medio Oriente o in Africa o in altri posti afflitti dagli stessi mali, quali sono le similitudini e le discrepanze che ha rilevato?

In effetti, sembra metafora applicabile a varie situazioni odierne, anche se le dinamiche sono diverse, se non altro perché laddove una grande nazione come l’America gestisce le proprie politiche, in Medio Oriente e alcune aree dell’Africa invece interferenze geo-politiche, macro-economiche e geo-strategiche sono da capogiro e producono effetti devastanti che a loro volta agiscono come boomerang in una spirale che bisognerà pur cercare di ‘decostruire’ … Di simile c’è quel pacifico resistere di fondo esemplificato, in America, dalle tante volte che ho visto scritto ‘Not in Our Name’ nelle manifestazioni contro guerra e conflitti, e da quanto vien ugualmente detto in tanti modi e luoghi anche nel mondo musulmano. Come nella manifestazione di solidarietà con le vittime del terrorismo cadute in Belgio e Francia tenutasi a Casablanca l’anno scorso, o nel recente ‘sit in’ d’una ampia manifestazione a Rabat di solidarietà e cordoglio per le vittime del criminoso attacco a Orlando, e nel mobilitarsi odierno di quante e quanti dicono no a violenze e fanatismi in loro nome e denunciano individui e gruppi che non rappresentano la grande maggioranza delle persone. Peccato che di questo non si parli mai qui – ma si citino soltanto deliranti proclami elettronici non sempre ben individuabili – allorquando per far fronte all’orrore che ci angustia e occupa la scena, le voci della ragione e le propedeutiche sociali e psicologiche sarebbero da sostenere molto di più, anche e proprio perché il momento è critico, gli animi esaltati se ne nutrono e le azioni terroristiche vanno a consolidare populismi e scelte politiche nei vari orizzonti… Vogliamo concludere questa conversazione con una piccola riflessione? Io non insisterei troppo su ‘le barriere culturali’ sia perché spesso – ad analizzare adeguatamente i fatti – si tratta di ben altro, sia perché il proprio della cultura è quello di non erigere barriere o di sormontarle. Hugo von Hofmannsthal ha scritto “le usanze separano, la musica unisce”. Non diceva diversamente Averroè, che si era interessato anche di teoria musicale. E pertanto è in nome di ciò che unisce che, nel funesto clima attuale, ballare con Averroè può avere la sua valenza simbolica.