Occorre dare a ragione ad Albert Thibaudet quando osserva come «parlando di Mérimée ci si deve per forza riferire a Stendhal, mentre quando si parla di Stendhal non c’è bisogno di riferirsi a Mérimée». Qui – e lasciando da parte ogni altra considerazione di merito – la supremazia si gioca sul piano della fama, sebbene poi in vita il parigino abbia avuto tutto ciò che un uomo (in specie se di non comune talento) possa desiderare, ossia successo letterario, gloria e onori accademici e mondani, feluche a iosa, prestanza fisica e fortune amorose, insomma la vita piena che mancò al provinciale. La fortuna postuma, si sa, è altra cosa, e nello specifico Grenoble ha surclassato la capitale senza neppure giocare i tempi supplementari. Resta che i due amici – si conobbero nel 1822, frequentarono i medesimi salotti, si scambiarono molte lettere belle e spericolate e, nel 1850, Mérimée compose in ricordo del compagno e maestro scomparso il meraviglioso H. B. – cercarono entrambi nel passato più o meno recente le passioni aspre e non mediate, gli impulsi selvaggi e barbari, le azioni sanguinose, la violenza che non conosce freni e limiti.
Stendhal si volse fin da subito all’Italia, Mérimée guardò alla Spagna, alla Corsica o alla stessa Francia della strage degli ugonotti. Proprio nella prefazione alla Cronaca del regno di Carlo IX, il romanzo storico (assai documentato) alla Walter Scott pubblicato nel 1829, il ventiseienne Mérimée non si risparmia in quanto a dichiarazioni di metodo e di poetica che lo stesso Stendhal avrebbe potuto controfirmare almeno per le sue Cronache italiane. In primo luogo: «A me non piacciono, in tema di storia, se non gli aneddoti, con una spiccata preferenza per quelli nei quali ho l’impressione di scorgere un quadro fedele dei costumi e dei caratteri di un determinato periodo». In secondo e più rimarchevole luogo: «A me sembra curioso il confronto tra quei modi di vita e i nostri, anche perché ci permette di seguire la decadenza delle passioni vigorose a beneficio di un più quieto vivere e, forse, di una maggiore felicità. Solo rimane da stabilire se noi siamo da più dei nostri antenati, il che non è di facile decisione. Infatti, con il passar del tempo, il giudizio degli uomini su azioni dello stesso ordine è notevolmente mutato. Così, verso il 1500, un assassinio o un avvelenamento erano lontani dal suscitare lo stesso orrore che susciterebbero oggigiorno. Ciò che costituisce delitto in uno stadio avanzato di civiltà, è da considerarsi come una semplice prova di audacia in uno stadio meno progredito, e forse come un’azione lodevole in un periodo di barbarie».
Ora, di un tale sentimento nondimeno assai diffuso nel romanticismo francese, Mérimée elabora una versione improntata ad asciuttezza, a sobrietà, persino a distacco emotivo. È la misura il paradigma stilistico costante di questo «Musset savio e bevitore d’acqua», per dirla sempre con Thibaudet. Egli, scrisse Sainte-Beuve (a cui però non di rado capitava di scambiare i pregi per difetti), «si contiene troppo; è troppo riservato per sistema, e alla lunga lo è diventato per natura», sicché il suo credo si sarebbe potuto riassumere nel motto «ricordati di diffidare». Lo scettico, disincantato, impersonale, caustico, impassibile, conciso, severo, ironico Mérimée – «viveva mascherato», osservò Turgenev, altro suo buon amico – in nessun caso ebbe ad abdicare dal proprio imperativo categorico improntato a rigoroso senso critico nei riguardi di se stesso, nemmeno quando (per accesa, inesauribile curiosità e, insieme, per ragioni attinenti ad ambizioni accademiche), in specie nella seconda parte della sua vita e comunque dopo i fallimenti rivoluzionari del 1848, volle dedicarsi a ricerche storiche di carattere eminentemente erudito.
Ne è testimonianza I falsi Demetrii, opera del 1854 che è lecito annoverare tra quelle minori e che ci viene adesso restituita in italiano nella versione che Tommaso Landolfi approntò nel 1944 per Vallecchi, il suo editore (Adelphi, pp. 305, euro 13, 00). Minore dunque, ma ugualmente raggrumato a ridosso della poetica di cui s’è detto e dalla quale l’autore mai deragliò, neanche quando occorreva pedissequamente seguire, come nel nostro caso, il percorso spesso accidentato lasciato in sospeso da vecchi annalisti, da storici locali, da testimoni stimati per oculari, da fantasiosi cronisti e senza contare i documenti ufficiali e le corrispondenze incrociate di ambasciatori, ministri, funzionari, gesuiti, cardinali, addirittura pontefici e patriarchi. Ma Mérimée – insieme alle più ardimentose mistificazioni letterarie, ai veri e propri «falsi», alla cultura e all’architettura classica (non si spingeva, in quanto a preferenze, oltre lo stile romanico, a differenza di Hugo), allo studio delle lingue (tradusse, oltre a Turgenev, Puškin e Gogol’), agli storici come Polibio e Tucidide, ai poeti come Lucrezio – amava le ricerche erudite e lo scandaglio di polverosi archivi, soprattutto quando all’orizzonte si coglieva la promessa di riportare alla luce «le magnificenze e la barbarie dell’Oriente» o, in genere, il «lusso barbaro» che dal passato fatica a raggiungerci.
I falsi Demetrii è prima di tutto un vivido affresco ambientale chiuso in una cornice di tempo – la morte di Ivan il Terribile, il governo di Boris Godunov e gli undici mesi di regno dell’avventuriero che riuscì a spacciarsi per Demetrio, il figlio di Ivan che in realtà era stato assassinato in circostanze strane e controverse ancora bambino: dunque tra il 1584 e il 1605 –, un tempo segnato da colpi di scena e di mano, bagni di sangue, carestie, pestilenze, feroci delitti, avvelenamenti, veri o presunti suicidi, scontri in armi, rivolte popolari, guerre civili, congiure, tradimenti, terribili vendette, scorrerie, saccheggi, stupri di massa. Un vaso di Pandora, uno scrigno ricco di preziosi materiali narrativi di grana arcaica, di primitiva, sorgiva fattura con in più, al centro, la vicenda di una impostura finita male in un’epoca in cui «non si facevano paci, ma soltanto tregue» e dove il sospetto, la diceria, l’orrore superstizioso per lo straniero giocavano un ruolo cruciale. Mérimée utilizza al meglio questi che per lui sono tesori da scrostare e ricondurre all’antica brillantezza. Così si staglia la figura di Boris, instancabile nel lavoro e nell’esercizio del potere, tirannico e riformatore, acuto «conoscitore d’uomini» ed efficace organizzatore di un nuovo sistema di controllo poliziesco e spionistico – «i Russi», osserva lo scrittore, «si sentirono più schiavi sotto questo nuovo despotismo, regolare e minuzioso, e talvolta si trovarono a rimpiangere le furie intermittenti di Ivan il Terribile». E quella del ventitreenne, il falso Demetrio appunto, divenuto per meno di un anno lo zar di tutte le Russie e poi assassinato come accadde nel 1491 a quello vero.
Mérimée si sofferma ad analizzare le circostanze favolose, quasi incredibili, di quella ascesa al trono, e le ragioni di quella caduta nella polvere, proprio mentre racconta i crudi dettagli del delitto e dello scempio e vilipendio di quel corpo. «Questi strani amori», riflette, «questa fedeltà ai suoi impegni in mezzo all’incostanza e persino ai bagordi, questo ardimento nel tentare un’impresa disperata, questo imperturbabile sangue freddo nel sostenere un’audace impostura, questa buona grazia nel rappresentare la parte del sovrano legittimo, tante brillanti qualità congiunte a una puerile vanità e alla più imprudente leggerezza, tali sono i contrasti che presenta il carattere di Demetrio, spiegabili forse colla sua grande giovinezza e colla sua educazione d’avventuriero». Che poi sono le caratteristiche che molto attraevano questo scrittore tutto genio e regolatezza. Opera minore, allora, ma il tocco è quello, inconfondibile, di Matéo Falcone, Il vaso etrusco, Mosaico, Le anime del Purgatorio, La Vénus d’Ille, Colomba, Carmen e Lokis, quest’ultima novella datata 1869, un anno prima che la morte lo cogliesse a Cannes, si potrebbe dire schiantato sotto il peso delle troppe medaglie che Napoleone III gli aveva conferito.