Se qualcuno poteva arrivare con qualche dubbio alla Carmen annunciata da Mario Martone allo stabile torinese di cui è direttore, si è dovuto ricredere. Nonostante la recente edizione dell’opera di Bizet firmata Emma Dante alla Scala, e quella storica di Peter Brook tanto amata anche dal pubblico italiano, quella in scena al Carignano (fino al 15 marzo, poi a Roma per un mese circa), costituisce uno spettacolo coinvolgente e indimenticabile. Ispirata più al racconto originario di Merimée che non alla partitura del musicista francese, ha dei punti di forza innanzitutto nel testo riscritto e rimodellato da Enzo Moscato sulla sua Napoli, come si capisce subito ad apertura di sipario dall’echeggiare delle onde, quando notoriamente il mare non bagna Siviglia. E ancora c’è la decisiva partecipazione alla drammaturgia della fantastica Orchestra multietnica di piazza Vittorio diretta da Mario Tronco, i cui musicisti son pronti in ogni momento a spostarsi dalla buca al palcoscenico e prendere parte attiva al racconto. E poi, elemento primario, ci sono gli attori, tutto l’ensemble, coeso e in grado di cantare, parlare, ballare, e di commuovere e divertire.

D’altra parte, la sostituzione di Siviglia con Napoli non è un puro artificio di ambientazione o scenografia, ma una sostanziale assunzione della città campana a protagonista: è la città ad essere sacra e prostituta, innamorata e traditrice. Napoli come Carmen, e quindi come Iaia Forte, protagonista assoluta tra fremiti e colpi d’anca, creatura fascinosa di ingenuità, perdizione, e di giocosa, carnale infedeltà. Come lei, anche Napoli sembra non avere morale, e Martone può giocare a colpo sicuro l’esperienza vissuta con i gloriosi Dieci comandamenti, per evocare fascino e crudeltà di Raffaele Viviani, che di questa Carmen diviene un progenitore sicuro, così come ascendenza diretta ne è la sceneggiata…

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Tutto nello spettacolo risponde alla crudezza della novella di Merimée, eppure tutto è originale creazione su Napoli, che nel corpo, voce e spregiudicatezza di Iaia Forte trasforma davvero quella esotica eroina ottocentesca in un personaggio familiare e inquietante, né virago né «strega», ma riesce anzi a farci commuovere sulla sua «femminilità» e identità, di cui spalanca con apparente incoscienza gli orrori. Fin quasi a esibirli con orgoglio, anche se tutti siamo pronti a giustificarla come «debolezza». E quell’ambiguità tra il personaggio di Carmen e la città di Napoli, è un elemento fortissimo e avvincente per lo spettatore come per gli altri personaggi: i vizi potrebbero facilmente rovesciarsi in virtù, mentre queste si rivelano salvifiche e patetiche insieme, quasi che la regia ci volesse tener sospesi: non sul limite della morale, quanto piuttosto sui magici sortilegi cui il palcoscenico può indurre, a pieno titolo.

Mario Martone somma per questa sua nuova produzione (che davvero potrebbe girare per anni in Italia, e ancor più all’estero) la maestria ormai accumulata e riconosciuta sui palcoscenici lirici e soprattutto al cinema. Senza forzature, in uno spettacolo che non dura neanche un’ora e mezza, egli riesce a far scorrere un rullo «interiore», ora soave ora stridulo, che può riguardare, per qualche aspetto, ciascuno degli spettatori.

Carmen c’est moi, e con una tenerezza che non dissimula la mano sicura, la regia accarezza quella donna letteralmente fatale, e tutte le figure che le stanno intorno, inventando per ognuna, sulle tracce della scrittura di Moscato, caratteri drammaturgici che ne fanno conoscere e approfondire l’esistenza. I due uomini amati (e portati alla rovina) da Carmen sono Cosè, italianizzato nella pronuncia da provincia veneta da Roberto De Francesco, che dà alle vibrazioni amorose del soldatino di Bizet una nuova identità, fatta di umiliazioni da caserma e da radici estirpate e mal riposte nella donna che ama. Mentre il torero Escamillo si trasforma in O’ Torero, l’attore nordafricano Houcine Ataa, che si porta dentro echi di Carosone.

E ancora, tra i tanti che animano i vicoli dei Quartieri come la fabbrica (che ha preso il posto della tabaccheria) o il bordello di cui Carmen si fa orgogliosa proprietaria e animatrice, vanno ricordati almeno Giovanni Ludeno, perfetto e divertito nell’evocare ufficiali strafottenti o clienti infoiati, e Anna Redi, scatenata lei ma anche autrice dei movimenti coreografici degli altri che rendono l’opera un vero musical. Cui danno spessore anche la scena di Sergio Tramonti e i bei costumi di Ursula Patzak.

E a questo punto il discorso torna alla meravigliosa orchestra di Piazza Vittorio. Tecnicamente inappuntabili, i musicisti che saltano in palcoscenico per dare voce a un personaggio o per spostare una scena, sono un terreno di comunicazione fortissimo tra questa e il pubblico. E per loro, tra virtuosismi e strizzate d’occhio, sta la bella partitura che Mario Tronco ha rielaborato a partire da Bizet. Senza risparmiarsi agganci col patrimonio partenopeo, e affondi pop, che aumentano se possibile la commozione e le risate.