Fukushima è un disco di una bellezza inaspettata. I lunghi brani, l’uso di sintetizzatori e strumenti vintage, il largo spazio dato all’improvvisazione, fanno di questo lavoro qualcosa di anomalo, in grado di distinguersi da qualunque altra produzione oggi in Italia, inattuale nell’approccio quanto aggiornata nelle sonorità. Il mood pare influenzato dal prog degli anni ’70, così come il modo di lavorare, in sei a registrare senza traccia guida, senza click, lasciandosi andare a deviazioni psichedeliche e post-rock e facendosi condurre da un cantato visionario, a metà tra l’onirico e l’horror. L’ultimo lavoro dei veneziani Kleinkief è un piccolo gioiello, ma chi conosce la storia della band ha poco di che sorprendersi.

Un gruppo attivo da metà anni ’90 e che con i primi due album intrisi di lirismo noise era riuscito a ritagliarsi uno spazio nella florida scena indipendente del tempo, per poi fermarsi dopo D’amortelocanto, ottimo lavoro datato 2002, «un disco che ci aveva impegnato tantissimo e ci aveva svuotato completamente», cui segue una pausa di quasi un decennio.

Della formazione originale sono rimasti ora solo il batterista Samuele Giuponi e il frontman Thomas Zane, autore di tutti i brani di Infranti, album di pop intimista che ha accompagnato il ritorno all’attività della band tre anni fa. Ora esce Fukushima , che per l’approccio sperimentale e per il lavoro corale rappresenta un ritorno al passato, «con quella che secondo me è la migliore formazione che abbiamo mai avuto, quella più magica, nel senso dell’ambiente sonoro che è capace di creare e nel senso della ricerca totale» racconta Zane, «anche se in realtà i Kleinkief sono più un collettivo», in cui vanno inclusi l’ingegnere del suono Alberto De Grandis e l’artista Matteo Scorsini, autore delle splendide illustrazioni presenti nel disco.

«Abbiamo passato quasi un anno a suonare cercando di capire che cosa volessimo ottenere, in totale libertà. Abbiamo poi fatto un lavoro di preproduzione enorme, approfondito. Il disco suona vicino al prog, ma io non ho questa formazione. Tutto è nato in modo spontaneo, anche il fatto di usare strumentazione d’epoca. Quando abbiamo intuito quale potesse essere l’orientamento dell’album abbiamo spinto sull’acceleratore, portando all’estremo quello che stavamo facendo», spiega Zane. L’esempio più riuscito è forse proprio la title-track Fukushima, un brano strumentale di quindici minuti attraversato da rumorismi, elettronica e chitarre noise.

«In realtà parte del tempo che abbiamo dedicato alla registrazione era stata pensata per l’improvvisazione. Abbiamo deciso di passare due giornate a registrare i pezzi che avevamo preparato, e una da dedicare all’improvvisazione totale. Quando abbiamo riascoltato la traccia siamo rimasti sorpresi, la musica sembrava del tutto inconsueta, come se fosse fuori dalla normale realtà. Mi è venuta l’idea di chiamarla Fukushima. Mi faceva pensare a un mondo post-apocalittico, un luogo vilipeso che cercasse di trovare una nuova vita».

Il fascino dei Kleinkief si spiega anche con la particolarità dei testi, in cui coesistono sogni, visioni grottesche, parole d’amore e di morte. «Mi piace lavorare sull’eccesso» riflette Zane, «cercando di toccare argomenti come la morte, tema che mi attrae quanto mi spaventa, conservando sempre almeno un appiglio alla realtà. Un grandissimo stimolo l’ho poi avuto da un ragazzo, Fabio Macellari, un poeta conosciuto anni fa. Me ne sono innamorato e gli ho chiesto di poter usare le sue idee e le sue parole, lui ne è stato contento. E anche noi, molto»