«Non andare mai a vivere in un quartiere che confina con una torre». Il motto classista che circolava da anni nei salotti dell’alta borghesia romana pare tornato in voga presso gli aperitivi della Roma-bene. È una di quelle regole che servono a erigere muri e tracciare confini, a marchiare col fuoco la scandalosa povertà di periferie quali Tor Bella Monaca, Torre Angela, Tor Tre Teste. Adesso, in una di quelle “torri”, c’è stato l’omicidio di un giovane pakistano che rispondeva al nome di Khan Mohamed Shandaz. Aveva solo ventotto anni ed è stato pestato fino alla morte. L’altro lato del dramma è un minorenne che si è consegnato spontaneamente alle forze dell’ordine. Due giorni dopo i fatti, una manifestazione ha espresso vicinanza all’aggressore. Segno ulteriore che quello consumatosi nella notte tra il 18 e 19 settembre scorso pareva solo un fatto di cronaca nera e marginalità nella periferia sud di Roma, ma nasconde molto di più. Lo spettro della Roma sporca e incontrollabile che quelli dei quartieri alti hanno l’illusione di tenere a distanza è in questo caso rappresentato dal mausoleo che l’imperatore Costantino volle costruire con anfore. La torre delle pignatte, Torpignattara, si incastra a sudest di Roma. Cinquantamila anime tutt’altro che marginali, a ridosso della movida del Pigneto, poco lontano dai quartieri residenziali dei Colli Albani sulla Tuscolana, lungo il tracciato dell’acquedotto alessandrino e che porta dritto alle mura della città storica.

Equilibrio labile e prezioso

Nel quartiere globale della città eterna abitano uomini e donne di oltre sessanta nazionalità che vanno a mescolarsi ai romani di qualche generazione, figli dei migranti dell’Italia meridionale che nella prima metà del secolo scorso costruirono le baracche e affollarono i palazzotti della Marranella, dell’Acqua Bullicante. Tutto pareva destinato a reggersi su un equilibrio labile e prezioso, fatto di spirito d’adattabilità popolare ed elasticità culturali. Anche la proliferazione di cornershop asiatici e bar cinesi lungo il viale alberato era servita a rendere più vivace e illuminata, e quindi più sicura, la zona fino a tarda notte. Poi sono arrivati i segnali d’allarme.

Nell’estate di due anni fa, durante il Ramadan, il rancore esplose contro i migranti inginocchiatisi sull’asfalto della trafficata via Serbelloni, tra l’ufficio postale e il centro islamico. Radunati per la preghiera del tramonto, dovettero fronteggiare le minacce di alcuni abitanti esasperati dall’affollamento quotidiano. Seguì una manifestazione di protesta indetta dalla comunità musulmana. Slogan in arabo risuonarono lungo le vie del quartiere. Nessuna presenza dalle istituzioni o tentativo di interlocuzione dai partiti del centrosinistra, che pure da queste parti raccolgono un mucchio di voti.

Del resto, in molti ricordano quando la locale sezione del Pd espose un manifesto nel quale si esultava per l’avvenuto sgombero di un campo rom: «Finalmente diciamo no al degrado!».
Così, qualche settimana fa il quotidiano Libero ha gettato benzina sul fuoco e dipinto il quartiere come se fosse un califfato: «Torpignattara è sempre più simile a una grande città islamica – ha tuonato il quotidiano – negozi gestiti da immigrati arabi, scuole coraniche e anche sale del V Municipio concesse alla comunità musulmana per insegnare ai bambini il Corano».

Negli stessi giorni, sono sorte proteste spontanee contro il «degrado», sono comparsi volantini a firma di sedicenti «cittadini di Torpignattara» nei quali si rivendica il diritto a difendere «la piccola proprietà e le tradizioni» e si citano le fantomatiche «frontiere spalancate» cui il suolo patrio sarebbe soggetto. I capannelli per strada si sono infittiti, i gruppi su Facebook si sono infiammati.

«Io non sono razzista, ma…»

Il senso di abbandono da parte delle istituzioni ha fatto il paio con i colpi della crisi che fiaccano l’economia dei piccoli commercianti. Si tengono assemblee quotidiane e convulse, all’interno delle quali la voglia di dire la propria e la tentazione di ascoltare gli istinti più retrivi rischiano di mescolarsi. Le voci si accavallano: «Io non sono razzista ma…», «Abitiamo alla stessa distanza dal centro di Roma dei Parioli ma ci fanno sentire estrema periferia…», «… È persino tornata a scorrere l’eroina, come non accadeva da anni». «Chi non ha niente o quasi niente, quel poco che ha, già per lui insufficiente, lo difende con le unghie e con i denti da chiunque minacci il suo misero possesso – spiegano quelli della Certosa, paesetto rosso all’interno del quartiere – L’atteggiamento di molti cittadini di questo quartiere non è ideologicamente razzista ma esprime la rabbia dell’affamato, di colui che sta annegando nel mare delle politiche capitaliste che lo vedono perdente e impotente. Con il nuovo residente si contende le briciole che cadono dal tavolo del banchetto dei ricchi».

Nel romanzo Il contagio Walter Siti racconta la contaminazione tra l’ambizione degli abitanti del centro e la rudezza di quelli delle periferie. Secondo questa lettura post-pasoliniana Roma, come il mondo, si sta trasformando in una grande borgata. Sotto la “marana” di Torpignattara, la pozza che sorgeva all’incrocio tra la Casilina e Acqua Bullicante, scorre ancora un fiume sotterraneo, che sfocia direttamente sulla Prenestina, al parco dell’ex Snia Viscosa, dove i movimenti hanno strappato alla speculazione il laghetto naturale con tanto di microclima. La partecipazione dal basso scorre come l’acqua dei sotterranei, e ha finora fatto da argine alla paura e alla diffidenza.

Lo spirito del ribelle risorgimentale Carlo Pisacane aleggia sulle insegne della scuola elementare di zona che, per merito di maestre instancabili e genitori appassionati, è un gioiellino di istruzione multietnica odiatissimo dalle destre e poco protetto dai governanti. Solo qualche mese fa il leghista Borghezio venne qui a fare campagna elettorale: le mamme del quartiere lo cacciarono in malo modo. «Questa scuola potrebbe diventare uno dei centri propulsivi del quartiere – riflette Luciana, una delle maestre della Pisacane – Un laboratorio della Torpignattara che rifiuta il marchio che le vorrebbero appioppare».

Le fa eco Germana, mamma del quartiere allarmata per il clima di tensione ma anche indignata per i disservizi: «Qui ci sono gli antidoti all’egoismo e a razzismo che l’abbandono dei politici rischia di alimentare. I pochi chilometri che ci separano dal centro storico, ad esempio, sono divenuti una distanza incolmabile a causa dei disservizi dei trasporti che ridisegnano nei fatti la geografia sociale della metropoli». Maria, attiva nei comitati di genitori, ammette: «Tira una brutta aria che forse non riusciamo bene a capire fino in fondo».

Ridisegnare le mappe

Il marciapiede di via Pavoni, il luogo dell’omicidio dell’altra notte, si trova a pochi metri dalla Pisacane. Prima di raggiungerlo bisogna passare davanti al cinema Impero, sala proiezioni abbandonata da anni. Venne costruita in pieno fascismo, assieme alla sua copia africana di Asmara. Il doppio coloniale di Torpigna, dunque, si trova in Eritrea, ulteriore segnale del destino di questo quartiere: un giorno le contraddizioni delle colonie, la loro proliferazione di confini e conflitti, si sarebbe materializzata qui, dal sud del mondo a sud di Roma.
In fondo, si tratta oggi come allora di rompere i confini fisici e mentali e ridisegnare le mappe.