È il testo voluto dal ministro dell’Interno Angelino Alfano, al palo esattamente da un anno dopo essere stato adeguato in sede di commissione Giustizia alle richieste delle forze dell’ordine, quello del ddl per l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale che da ieri è tornato in Aula al Senato per la discussione generale, in seconda lettura.

Oggi alcuni emendamenti proposti da senatori dem e di Si – Felice Casson, Sergio Lo Giudice, Luigi Manconi e Peppe De Cristofaro, tra gli altri – tenteranno di riportare la fattispecie del reato nel solco dettato dalle convenzioni Onu ratificate anche dall’Italia. O per lo meno, di cercare di tornare al testo licenziato dalla Camera il 9 aprile 2015, decisamente migliorato rispetto al pastrocchio legislativo che uscì da Palazzo Madama il 5 marzo 2014. Un ping pong tra le due camere, dunque, che fa poco onore a un Paese che attende da 30 anni di elevarsi al rango di “civile” e che oggi paradossalmente si batte per ottenere verità e giustizia per Giulio Regeni, il ricercatore friulano torturato e ucciso in Egitto. Il voto finale è previsto per martedì prossimo, ma c’è perfino chi, nelle fila del Pd, avrebbe preferito rinviare ancora, aspettando momenti meno tesi con il Ncd.

In Aula ieri il senatore Manconi ha ricordato le parole di Paola Regeni pronunciate proprio in conferenza stampa al Senato – «Ho visto il volto di mio figlio diventato piccolo piccolo, su quel volto ho visto tutto il male del mondo» – e ha chiesto di riflettere sul testo che non contempla il reato specifico del pubblico ufficiale ma prevede solo un aggravante nel caso in cui a torturare sia un servitore dello Stato. Un ddl che, assecondando i timori di «denunce pretestuose» da parte dei sindacati di polizia, esclude dal novero delle torture violenze singole non «reiterate», o non particolamente «gravi», non agite «con crudeltà», o perfino pratiche come la “roulette russa”, perché il trauma psichico nella vittima deve essere chiaramente «verificabile». «Non ci basta una legge, vogliamo una buona legge», ha detto Manconi.

Preoccupato invece che il dibattito non si sviluppi «pretestuosamente», e al lavoro su un emendamento che metta al riparo le forze dell’ordine da punizioni «eccessive» durante l’adempimento del “proprio dovere”, è il socialista Enrico Buemi, membro della commissione Giustizia dove, prima di modificare il testo, nel luglio 2015, sono stati di nuovo auditi i sindacati di polizia. Più esplicito il Fi Maurizio Gasparri «Non vorrei che questo ddl e quello sui numeri identificativi per gli agenti (bloccato in commissione Affari Costituzionali,ndr) portasse alla paralisi dell’attività delle forze dell’ordine».

Al contrario, per l’associazione Antigone, che ieri ha scritto una lettera ai capigruppo del Senato, bisognerebbe fare ogni sforzo possibile per evitare «il ping pong parlamentare, dando via libera al testo licenziato dalla Camera nell’aprile 2015»: «Si tratta di una proposta di rilevanza eccezionale che colmerebbe una lacuna gravissima». Perché l’Italia non si è mai allineata al trattato Onu che pure ha ratificato nel 1988, diventando così «spazio di impunità e luogo di rifugio per chi commette all’estero tale crimine lesivo della dignità umana». «La Convenzione Onu contro la tortura – ricorda Antigone – impone che le fattispecie descritte a livello nazionale non possano essere più restrittive rispetto alla definizione Onu».

Se si vuole evitare di violare le imposizioni internazionali, dunque, «occorre che non vi sia alcun dubbio sul fatto che anche una sola condotta possa essere eventualmente qualificata come “tortura”. Pertanto – prosegue la lettera inviata ai senatori – sarebbe importante l’utilizzo del singolare “violenza o minaccia” (o, come minimo, “violenza o minacce”) al posto del plurale». Stessa attenzione riguardo la soglia di gravità, che deve essere riferita alle sofferenze causate, come vuole la Convenzione Onu del 1984, e non alle violenze o minacce. Infine, ricorda ancora Antigone, la definizione di tortura delle Nazioni unite «richiama senz’altro l’ipotesi del reato proprio», inteso «come violazione dei diritti umani commessa da organi statali nei confronti di persone poste sotto il loro controllo e affidate alla loro responsabilità».

Però, se non può essere data, secondo le prescrizioni internazionali, una definizione più restrittiva, è sempre possibile «accoglierne una più ampia». L’importante, conclude Antigone, è «non snaturare il concetto: in questo senso l’ipotesi del reato proprio rimane certamente la più indicata», anche se «la soluzione intermedia (reato comune con aggravante se il fatto è commesso da pubblico ufficiale) potrebbe, essere un’alternativa accettabile» perché non in contrasto con la Convenzione, «soprattutto se fosse prevista la non bilanciabilità dell’aggravante in questione con eventuali attenuanti».

Un ragionamento di fino che cozza con la posizione ultrà di Carlo Giovanardi (Idea) – solo per fare un esempio -, il quale si scaglia contro la «confusione strumentale» di coloro che «continuano a citare i casi Aldrovandi, Uva, Cucchi e Magherini, tutti riguardanti fattispecie colpose, come esempio di comportamenti che dovrebbero costare l’ergastolo ai carabinieri e poliziotti coinvolti».