Il telefono cellulare di Osvaldo Casalnuovo squilla a lungo. Lui non risponde. «Saranno clienti», dice sorridendo mestamente, schernendosi dietro occhi azzurri. Osvaldo è un signore sulla cinquantina, viene da Buonabitacolo, 2500 anime in provincia di Salerno. Per un giorno ha chiuso la sua officina meccanica e si è messo in viaggio alla volta di Bruxelles. È arrivato al Parlamento europeo per parlare di come morì suo figlio Massimo. Una sera di 5 anni fa stava a bordo di uno scooter, al suo paese, e venne disarcionato da una pattuglia di Carabinieri. «Non si fermarono soccorrerlo, erano già impegnati a programmare il depistaggio».

Osvaldo è uno dei parenti delle vittime degli abusi di polizia che siedono attorno al tavolo ovale delle audizioni. I Casalnuovo, i Cucchi, i Magherini, gli Uva, Bianzino: cognomi che abbiamo imparato a conoscere in questi anni di denunce contro gli abusi di potere. Si sostengono a vicenda, nella maggior parte dei casi si tengono per mano. La cosa diventa ancora più sorprendente quando capita che ancor non si conoscano, ma scopri che sono al corrente delle vicissitudini reciproche, che si capiscono con uno sguardo e che si fanno coraggio come se facessero parte della stessa sciagurata famiglia.

Sono accompagnati qui a Bruxelles da Acad, l’Associazione contro gli abusi in divisa. Si sono messi in viaggio su invito di Eleonora Forenza, parlamentare della Sinistra Unita Europea eletta in quota Rifondazione nelle liste dell’Altra Europa per Tsipras. «Vogliamo costruire un libro bianco, una mappa della repressione in Europa – dice Forenza dando il benvenuto alla delegazione italiana – La repressione è l’altra faccia dell’austerità e della fortezza europea contro i migranti. E in questo contesto l’Italia costituisce una anomalia». Così, il paese che secondo Amnesty International conobbe a Genova nel luglio del 2001 la più grave violazione dei diritti umani dal dopoguerra, si trova ancora una volta a dover fare i conti con la violenza delle forze dell’ordine. A dover raccogliere queste tragedie, a ripercorrere una storia fatta di tante storie terribili. Una concatenazione di morti e abusi che per Luca Blasi di Acad è fatta «di dolore ma anche di dignità». Di dolore, perché se ogni lotta punta alla vittoria, questa dei familiari delle vittime prende le mosse da perdite irrimediabili. Ma anche di dignità, cioè del coraggio di «prendere parola, sfidare il silenzio, rompere le solitudini e reclamare giustizia».

Con la precisione geometrica di una requisitoria e la passione indignata della narrazione, l’avvocato Fabio Anselmo apre il suo faldone degli orrori. Le sue parole tracciano la discesa agli inferi del diritto. Sono accompagnate dalle foto dei corpi straziati di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi, le immagini della morte di Michele Ferulli, l’audio dell’urlo disperato di Ricky Mogherini mentre viene colpito sull’asfalto. «La tortura è legittimata dal bisogno di sicurezza – spiega Anselmo – Più ci fanno credere di essere sotto minaccia, più i cittadini sono portati a tollerare gli abusi di polizia». Nelle stesse ore, la capitale belga è stretta d’assedio dopo una sparatoria durante una retata anti-terrorismo. L’emergenza non impedirà al programmato corteo contro gli abusi di polizia di muoversi, in serata.

La dissertazione di Anselmo individua tre categorie di abusi: quelli che avvengono nelle carceri, quelli compiuti durante le operazioni di arresto e quelli relativi all’uso illegittimo delle armi. La sua analisi si intreccia con quella di Miguel Urban Crespo, eurodeputato di Podemos, che ha ripercorso la genealogia della repressione nel suo paese. «La democrazia spagnola si basa sull’impunità dei crimini franchisti – dice Urban – Negli anni Settanta numerosi fascisti italiani vennero da noi per combattere i dissidenti del regime. Con la transizione democratica, fu il socialista Felipe Gonzales a negare l’estradizione per alcuni di questi soggetti». Urban individua nel «populismo punitivo» uno dei problemi di questi tempi: «Con la scusa di combattere la criminalità si puniscono i poveri e si evita di fare i conti con le ingiustizie sociali». Il suo collega basco Iusu Abaunz annuisce: «Un’inchiesta sulla tortura nei paesi baschi ha scoperto oltre 3600 casi – racconta – Abbiamo tantissime denunce ma soltanto 31 sentenze di condanna».

Il suo ragionamento si intreccia con quello di Lucia Uva, sorella di Giuseppe. «Mio fratello venne fermato per ubriachezza. Lo trovai morto due ore dopo», dice Lucia. Poi riporta una delle costanti di queste storie di abuso: «Quando ti capita una cosa del genere e decidi di denunciare tutto, da vittima diventi imputato». Michele Ferrulli, 51 anni, stava bevendo birra con gli amici quando venne schiacciato pancia a terra con la forza prima di spirare. «Lo hanno colpito per sette volte col manganello, nonostante fosse immobilizzato da quattro persone», dice sua figlia Domenica. «L’anomalia italiana prosegue – dice un altro avvocato, Fabio Ambrosetti – Sarà difficile sanarla perché è anche un problema culturale». Forse non basteranno neppure quelle leggi la cui mancata approvazione viene letta come una legittimazione alle violenze di Stato, come quella sul reato di tortura o sul numero identificativo per le forze di polizia. È quel problema culturale che fa urlare a Rudra Bianzino, orfano di Aldo: «Se fosse per lo Stato noi non potremmo neanche raccontarle, queste storie. Infatti siamo dovuti venire qui: all’estero».