Ha appena compiuto settant’anni il 5 maggio, ma pochi forse sanno che è ancora vivo e lotta insieme a noi. Invero però sarebbe più corretto sostenere che lotta nonostante noi, nonostante l’oblio al quale è stato relegato dopo avere rappresentato per mezzo secolo il sogno della catarsi, della liberazione se non dall’indigenza, quantomeno dalle secche dell’ultima settimana del mese.

Perché questo è stato il Totocalcio nell’Italia della ricostruzione: un acceleratore di fantasie, utopia di un’agiatezza con possibilità di varcare la soglia del lusso, un 13 in schedina che è stato oasi per qualche eletto – che poi magari si è trovato a maledire il colpaccio – e miraggio per gli altri, per tutti gli altri.

Nella fenomenologia del gioco a totalizzatore che ha unito il Paese più di quanto fosse riuscito a fare Garibaldi e ha accomunato nella medesima trasversale illusione classi sociali lontanissime, facendo dell’Italia un popolo di santi, poeti, navigatori e sistemisti, la cultura popolare ha avuto un ruolo determinante nel posizionare il Totocalcio nell’immaginario collettivo. La prima schedina, 5 maggio 1946, frutto dell’idea del giornalista Massimo

Della Pergola e di due amici riuniti in una società chiamata Sisal, non fu un successo immediato, ma a breve sarebbe diventata un appuntamento fisso per milioni di persone. Inevitabile, allora, che finisse al cinema, nei testi delle canzonette, persino nell’arte, amplificando la propria immagine proiettata sino ad essere fenomeno di costume ed esperienza comune universalmente conosciuta.

Le facce incredule dei primi vincitori vengono immortalate nei reportage della Settimana Incom alla consegna dei pacchi di banconote-lenzuolo, negli stessi cinema in cui magari viene proiettata una delle più celebri commedie all’italiana, L’audace colpo dei soliti ignoti, dove più che a fare 13 si punta agli incassi delle schedine, ma il contesto quello è, e tutto fa gioco.

Ne I tartassati, il cavalier Torquato Pezzella e il maresciallo Fabio Topponi (Totò e Aldo Fabrizi), padri alle prese, ognuno a suo modo, con figli e figlie, convengono che per sistemare alcune cose un sistema ci sarebbe, precisamente «un sistema di tre fisse e dieci multiple, ventiquattro 12 sicuri e la possibilità che il 13 si incolonni tre volte».

Gente che sogna e gente che vince: Giuseppe Bottazzi, detto Peppone, sindaco comunista di Brescello (Don Camillo monsignore… ma non troppo, con Gino Cervi e Fernandel), che firma la schedina con uno pseudonimo per non farsi riconoscere – sul retro c’era lo spazio per mettere i dati del giocatore – come Pepito Sbazzeguti, ma il curato che non è digiuno di anagrammi svela l’arcano: «gratta il Peppone e troverai il Pepito». Dieci milioni, «un pacco di roba stampata che domani può non valere niente», e nella raffinata logica rurale del guareschiano Peppone l’idea sarebbe quella di comprarsi «un discreto podere», ma il parroco, che ormai tutto sa, ne deride le incoerenze assiologiche: «Non puoi, la terra ai contadini, ah no, la tua coscienza te lo vieta».

Vince l’immigrato torinese Lino (Lino Banfi), anno 1983, Al bar dello sport con Jerry Calà nei panni del muto Parola che suggerisce con la sua lavagnetta il 2 di Juventus-Catania – che nella finzione si verifica con una improbabile doppietta di Aldo Cantarutti nei secondi finali della gara – permettendo così a Lino di costruire castelli in aria, perché con un miliardo e trecento milioni hai voglia; e allora addio mesto lavoro banco del pesce, c’è la Costa Azzurra che aspetta, non fosse che Parola tutto gioca e tutto perde al Casino. «Io non ci torno a Torino a fare zizizi con le aragoste!» e la sorte che gira di nuovo, tre miliardi alla roulette, e Lino non ci torna davvero a Torino.

Vince anche l’interista Franco (Diego Abatantuono, Eccezzziunale… veramente) e comunica tronfio alle insopportabili moglie e suocera «che il qui presente Spartacus ha deciso di spezzare le catene, è finita la festa». Ma la vincita è uno scherzo degli amici. Begli amici.

A Sanremo canta Pippo Franco, «ho giocato la schedina, la mia vita cambierà» (Mi scappa la pipì, papà), ma prima di lui Claudio Baglioni, nel 1975, aveva dedicato al Totocalcio una canzone, 21X, che fotografava in pieno lo spirito dei tempi.

Un pezzo inarrivabile: il ritornello è una colonna (1XX21X1X1121X) e nel testo immagina agi che non appartengono a proletari né a colletti bianchi, «un motorino per Marina, due mesetti in Val Gardena/ se pareggerà il Cesena, una villa con piscina» e se segnerà Mazzola «una bella barca a vela».

Dopo tutto, il sogno dà un senso alla vita forse più che il suo stesso raggiungimento. È ancora Totò, nella sua poesia ‘A speranza, a coglierne la filosofia: «Nun piglio niente, ‘o ssaccio…/ e che mme ‘mporta?/ io campo solamente cu ‘a speranza/ ‘a quanno aggio truvato stu sistema/ io songo milionario tutto ll’anno/(…) Si avesse già pigliato ‘e meliune/ a st’ora ‘e mo starrie già disperato/ invece io sto cu ‘a capa dinto ‘a luna/ tengo sempe ‘a speranza d’ ‘e ppiglià».

Non stupisce allora che il Totocalcio abbia foraggiato abbondantemente tanto le casse del fisco quanto quelle del Coni – il concorso record, 5 dicembre 1993: 34 miliardi e 400 milioni di lire, solo da quelle schedine lo Stato incassò tra imposta unica e diritto fisso 25 miliardi di lire – e che forse nessuno, di chi oggi ha più di 35 anni, possa dire di non avere mai giocato almeno una colonna nelle ricevitorie, i tabacchini in genere, che esponevano l’insegna illuminata dal neon: sfondo verde e scritta Totocalcio in giallo, sapore di casa.

Poi, con soverchia rapidità ma non certo inaspettatamente, come fosse il più naturale dei destini, è arrivato il momento di fare posto e lasciare ad altri la ribalta: colpa di un calcio a misura di tv a pagamento, delle scommesse a quota fissa, di nuovi giochi meno complessi rispetto al totalizzatore e in definitiva della fine del contesto che ne aveva caratterizzato la fioritura.

Volendo andare alla ricerca di un punto di non ritorno anche nell’immaginario collettivo, lo si può trovare nel 1998, quando tocca a Tommaso Zanello, alias Piotta, sigillare il baule della memoria e a stoccare il Totocalcio e tutte le sue citazioni pop in un angolo del soffitto. Lo fa – suo malgrado – nel pezzo che lo porta ad un clamoroso successo nazionale, perché nella sua Supercafone l’esigenza della rima trascina con sé un cambio di prospettiva e totem di riferimento: «Mi metto in branda e sogno un sei all’Enalotto/ poi me compro tutto quello che è coatto».

Eccolo il Superenalotto rottamatore prima ancora che qualcuno parlasse di rottamazione, novità rampante nata del restyling di un antenato dai meccanismi cervellotici, appunto l’Enalotto che Piotta cita per questioni di metrica. Ma non c’è possibilità di equivoco, in quel testo e nella quotidianità: la schedina per antonomasia da allora è un’altra, al 13 si è sostituito il 6 e i miliardi di lire – destinati a diventare milioni di euro – si sognano ormai con i numeri, non con i segni 1X2.

Poi certo, accantonate gloria e fama, qualcosa resta; del resto il Totocalcio e il suo gergo hanno inciso sulla lingua comune, tanto che non è affatto raro sentire ancora parlare e leggere di totoministri, totonomine e totoallenatori, senza dimenticare la locuzione «fare 13» ancora proverbiale per significare una botta di fortuna – e questo sebbene da alcuni anni a questa parte al Totocalcio si vinca con il 14 – o il termine «tripla» per descrivere una situazione aperta a qualsiasi esito.

O ancora proprio il termine schedina, ancora in voga essendo stato mutuato dagli altri giochi, che nasce proprio 70 anni fa con l’invenzione di Della Pergola.

Ma oggi che un Totocalcio triste solitario y final vive gli ultimi scampoli della sua esistenza in condizioni da Legge Bacchelli, viene da chiedersi sino a quando sarà così. Sino a quando, cioè, per identificare l’origine di certe espressioni basterà la memoria di quando quel gioco era re, e non sarà infine necessaria la filologia.