A tre giorni dall’attacco mercoledi scorso all’Università americana di Kabul (almeno 16 morti e oltre 50 feriti) una guerra delle “SIM card” si insinua nella guerra guerreggiata che tutti i giorni miete le sue vittime nel Paese dell’Hindukush. Come un un copione ritrito, Afghanistan e Pakistan si scontrano di nuovo perché, dicono a Kabul, ci sono tracce di telefonate che avrebbero raggiunto gli attentatori nella capitale dal Pakistan.

Ergo, il colpevole sta nel Paese dei puri. Islamabad risponde per le rime: anche loro hanno tracciato le telefonate ma queste sarebbero partite da… sim afgane, che riescono a collegarsi dal poroso e indefinito confine tra i due Paesi. Ergo, cercate in casa vostra. Guerra delle parole per ora, e anche cauta perché a Islamabad è arrivata una delegazione statunitense di altissimo profilo e dunque, visto che di mezzo c’è l’università americana, la prudenza è di rigore: c’è l’inviato speciale per Afghanistan e Pakistan Richard Olson, l’assistente speciale del presidente Obama Peter Lavoy e il comandante di Resolute Support, la nuova missione Nato in Afghanistan (cui l’Italia partecipa con 800 soldati), generale John Nicholson. Non son queste visite che si programmano certo da un giorno con l’altro, ma il caso, o forse no, fa coincidere la visita con l’ennesima strage. Strage senza rivendicazione, il che getta una luce ancor più sinistra sull’attentato.

I rapporti tra i due Paesi sono ormai più che tesi da oltre un anno e la tensione ha subito nei mesi recenti un’accelerazione cui l’attentato all’Università porta acqua come a un mulino che lavora a pieno ritmo. Indispettito per gli incidenti di frontiera, la montante pachistanofobia afgana e la tolleranza che gli afgani dimostrano per mullah Fazlullah e i suoi accoliti – è il capo dei talebani pachistani che Islamabad è convinta abbia eletto residenza in territorio afgano – il Pakistan ha deciso di reagire con l’espulsione degli afgani che risiedono nel Paese: sono circa due milioni e mezzo e un milione fra loro non ha le carte a posto.

Da gennaio Islamabad ha cominciato a far pulizia e adesso sono già 100mila gli afgani cacciati oltre frontiera (67mila solo da giugno). Molti di loro han così perso quel poco che avevano ricostruito della loro vita da profughi infiniti: c’è chi la prende con filosofia ma anche chi subisce l’espulsione come una catastrofe che l’Unhcr, l’Alto commissariato dell’Onu, ha già denunciato chiedendo finanziamenti e attenzione a donatori già troppo impegnati coi profughi siriani e di vedute ristrette visto che quella gente finirà per ingrossare le fila di chi tenta fortuna a Occidente. Il governo afgano infatti è in difficoltà: non li può certo respingere ma non ha soldi per accoglierli. La notizia però è di quelle non troppo seducenti nemmeno per i cronisti visto che di immigrati clandestini e non se ne parla già fin troppo. Non è l’unico aspetto dell’Afghanistan a trovar distratti media e politici.

L’altro aspetto, che par quasi irrilevante, è la guerra. La “mission accomplished” infatti non è compiuta per niente. In Afghanistan si combatte, se non più di prima, come sempre. I morti civili aumentano. I bombardamenti sono frequenti e chissà di che entità visto che gli americani hanno introdotto in teatro i B-52, i bombardieri volanti con una fama sinistra acquisita durante la guerra in Vietnam.

La differenza è che adesso combattono solo gli afgani e solo raramente le truppe speciali americane appoggiate dall’aviazione. La Nato sta a guardare (la sua non è una missione “combat” come si dice in gergo) e per ora gli afgani sembrano esser affiancati soprattutto dagli americani. Ma sono in difficoltà: militari e politiche. Quelle militari sono di routine (fatto salvo il fatto che ormai si combatte sempre più spesso nel Nord del Paese e non più solo nel Sudovest): i talebani riescono a prendere alcuni distretti per qualche giorno o qualche ora, poi arrivano gli afgani e riconquistano la postazione perduta. Ma, come commenta un militare, questo «non dovrebbe accadere».

Il problema è che la catena di comando, dal centro alla periferia, è labile quando non è inceppata. Ciò dipende, dicono gli analisti afgani, dal grado di perenne litigiosità del governo di Unità nazionale, un “papocchio” istituzionale nato dalle elezioni malate di due anni fa che, per far contenti i due galli in batteria, ha inventato un capo dell’esecutivo (Abdullah Abdullah) che affianca il presidente (Ashraf Ghani) col risultato che quel che uno fa la sera l’altro disfa la mattina: si tratti della nomina di un viceministro o di quella di un governatore. Succede così che quando qualche colonnello chiede rinforzi a Kabul si temporeggia perché gli ordini da palazzo son vaghi in questa guerra infinita che pare sia finita soltanto perché non ne parliamo più.