Perseguitato dal «cretinismo autoritario» (quel «critinismo» di cui ha scritto a più riprese anche lo scrittore «spatriato» Luigi Di Ruscio) e dalle «sbirraglie pontificie» di fine ottocento, incarcerato e chiuso nei manicomi di mezza Italia, errabondo e preso dal demone della scrittura, di Giovanni Antonelli (classe 1848) parlò anche Cesare Lombroso nel saggio Genio e follia.
A un secolo di distanza dalla morte un altro poeta, Massimo Gezzi, uno dei migliori della sua generazione, si ricollega a questo conterraneo remoto (entrambi sono nati a Sant’Elpidio a Mare, nelle Marche del sud) con due libri di cui in uno è il curatore (Giovanni Antonelli, Il libro di un pazzo. Note autobiografiche e rime, Giometti & Antonello, pp. 177, euro 16) e nell’altro l’autore, Uno di nessuno (Casagrande, pp. 64, euro 16), scritto nella forma prediletta dal lontano antenato, il poemetto.

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«La sua brevità sfida pure l’inerzia del periodo che attraversiamo, e perché meglio vi riesco» scriveva, infatti, l’anarchico nomade e autodistruttivo con manie suicide che nell’autobiografia si descrive così: «capelli e barba irti; labbra forti, riarse; gli occhi – piccolini – smarriti in una beffa implacabile, in un furore mortale; qualche linea differisce dal tipo umano e richiama il mastino, e col mastino, Giosuè Carducci». I testi di Gezzi sono ritmici e incisivi, una specie di ballata che ripercorre l’arco esistenziale in un romanzo in versi struggente. Nei dodici sonetti e momenti, si colgono altrettanti snodi esistenziali del tormentato poeta vagabondo, che Gezzi inventa dalla memoria documentaria e ai quali dà una forma e un accento interiore, altri rispetto a quella scelta dal protagonista per raccontarsi nella sua prosa a tratti lirica nello zibaldone delle sue picaresche avventure, Il libro di un pazzo, sequenze cronologiche di fatti e pensieri, scritto con crudo e allucinato realismo.

Quindi, due testi paralleli, uno interno e l’altro esterno al memoriale, dove la biografia diventa destino e letteratura, incrociando la storia tormentata di un’epoca, la fine del sogno risorgimentale e l’Italia postunitaria, dove sorvegliare e punire diventa una forma brutale di comando. In questo contesto Giovanni Antonelli è il personaggio uomo che in modo comportamentale interpreta la ferita esistenziale e sociale che gli sanguina dentro: scappa giovane da una provincia angusta e per emanciparsi s’imbarca sul regio brik Daino, e come un personaggio di Conrad vive la sua linea d’ombra subendo le angherie dell’ufficiale Ruffo, sulla Corvetta Cristina stringe amicizia con Ettore Ruvinetti, e dopo molte navigazioni finisce nel carcere militare della caserma degli equipaggi a Genova. Sarà condannato a un anno di carcere da espiare a Pisa, dove scriverà I misteri della fatua brutalità marittima, ossia il secolo del progresso retrogrado. Ma non è che l’inizio.

Nel suo giornale intimo, pubblicato la prima volta nel 1882, che ricorda certe prose dei Canti orfici di Dino Campana, l’aneddotica dà spazio alle sue molte peregrinazioni a piedi in giro per l’Italia. Rientra a Sant’Elpidio e riparte, finisce in manicomio a Macerata, poi in quelli di Napoli, Aversa, Roma e persino nella mia Fermo (dove gli diagnosticano una forma di «follia a caratteri melanconici, con tendenza al suicidio»), scappa a Montecassiano, poi Cesena e Ancona, dove morirà all’Ospizio Vittorio Emanuele II il 9 gennaio 1918. «La mia sentenza è scritta; i posteri, se dissimili dai presenti, vi coglieranno il mio vero tipo, e mi giudicheranno», scrisse alla fine del suo memoir. Non poteva sapere che un secolo dopo un altro poeta, nato nel suo stesso paese, gli avrebbe reso giustizia in versi.