E’ dall’inizio del secolo che il concetto di modernismo ha valicato i confini dell’area anglofona ed è gradualmente andato a occupare in terra straniera porzioni del campo letterario un tempo appannaggio di altre etichette: decadentismo e simbolismo su tutte. Ma quali sono le ragioni di quello che potrebbe sembrare un colonialismo terminologico? Perché gettare ancora più in là le radici del modernismo, non solo a comprendere Flaubert e Baudelaire, ma includendo anche il naturalismo?

Non è troppo arduo sostenere che Verga, Svevo, i futuristi, Zola, Joyce e perfino il Flaiano di Tempo di uccidere facciano parte di uno stesso movimento? Non se lo si considera non una corrente unitaria – scrive Pierluigi Pellini nel suo Naturalismo e modernismo Zola, Verga e la poetica dell’insignificante (Artemide, pp. 256, euro 25,00) ma un’«atmosfera culturale in cui si sviluppa un’articolata pluralità di diversi movimenti letterari», in modo da affiancare il modernismo italiano a quello internazionale e leggerlo, con Marshall Berman, come la variegata risposta alla crisi della modernità.
Pellini decide di avventurarsi sulla via più accidentata: non quella che passa per Flaubert (il cui solido rapporto con Joyce è quasi una vulgata) ma quella che attraversa Zola e Verga; così prova ad abbattere la «barriera» tra naturalismo e modernismo in nome di una condivisa poetica dell’oggettività e dell’insignificante. Lo sforzo maggiore è diretto, più che a legare gli autori del naturalismo francese e del verismo italiano ai grandi modernisti di casa loro o ai romanzieri urbani alla Dos Passos (dove il legame è di filiazione quasi diretta) a mostrare, con un certo successo, l’intreccio di temi e tecniche narrative che quegli autori hanno in comune con gli high modernist come Joyce e Woolf.

Di Zola e Verga (che alle volte appare un po’ ancillare, e un capitolo sui Malavoglia avrebbe forse giovato) viene perciò sottolineata la capacità di riprodurre «la centralità di un’esistenza quotidiana insignificante, sottratta a ogni teleologia, esibita nella sua bruta oggettività»; trame poco ben fatte, perciò, ma anche «una crisi del personaggio e uno sgretolarsi dell’antropocentrismo del racconto, che proiettano Les Rougon-Maquart verso il modernismo». Ci sono differenze quantitative tra l’accennata e ineguale dispersione naturalista e la beffarda resistenza alle trame dei grandi modernisti, eppure i germi sono tutti lì. Avvicinare naturalismo e modernismo ha il vantaggio non da poco di sottolineare come anche per i modernisti «il mondo esterno esiste» e, di conseguenza, esistono la società e la politica. Non è Zola a essere troppo politico per rientrare nel modernismo, e neanche è vero il contrario per Joyce: entrambi non smettono mai di parlare del mondo dei fatti, seppur con ferri del mestiere in parte diversi; da qui un loro avvicinamento; da qui, anche, una necessità di tenerne i capolavori sempre presenti, come direbbe lo studioso irlandese Declan Kiberd, nella pratica della vita di tutti i giorni.

E questo è chiaro nell’appendice del libro, in cui si dà conto di una polemica tra l’autore e un collaboratore cattolico di un quotidiano nazionale, a proposito dell’attualità degli scritti zoliani su Lourdes. Questa interpretazione modernista del naturalismo è infatti anche esempio di un modo di fare critica sempre radicata nel presente e che, se pure aspira a durare «non più di trent’anni», aspira a durare bene.