«Ci vuole un tempo così disperatamente / lungo per arrivare a intuire chi siamo. / L’indistruttibile amore per i meli, / la storiografia delle nuvole, lo studio delle erbe, non destinato/ alla stampa, l’acqua stregata, / appuntamenti in un buio accessibile. / Propriamente nulla per gli dèi. / Respirare per sottrarsi alla maledizione, / per un pezzo senza speranza, un pezzo molto breve. / Troppo breve». Così Michael Krüger in «Specchio», dalla raccolta Spostare l’ora (Mondadori «Lo Specchio», pp. 242, euro 18,00). Un uomo arriva, forse, ripensandosi nel tempo, a individuarsi: nella relazione con la natura, nelle sue diverse forme, per vie non razionali, in assenza di dèi, tra silenzio e parola, inspirazione ed espirazione, per fuggire l’anatema della fine, nel rimpianto che il tempo concesso sia un soffio.
Krüger si racconta autore, editore, girovago a volte postromantico e mai classico, filosofo della natura e contadino, etologo e botanico. Ha preso distanza dal mondo che corre e consuma il tempo, attraverso viaggi, incontri. In una prospettiva quasi postuma, prende atto della nostra superfluità, tra piante e animali che non sanno di sé. Misura la vita sul ritmo della natura. E non è solo autobiografia. Il ritratto di sé che abbiamo letto in apertura, in tedesco è giocato sull’impersonale Es braucht hoffnungslos lange («ci vuole un tempo così disperatamente lungo»), bis man ungefähr ahnt, wer man ist («per arrivare a intuire chi siamo»). Possiamo vagamente intuire chi siamo, osservando merli, gabbiani, corvi, vespe e farfalle, ricci e conigli. Pronunciando lentamente nomi di piante, città, paesaggi, amici.
Il più simile, tra gli amici umani, pare Erich Auerbach, evocato attraverso titolo del suo grande libro: «Mimesis, un’opera / senza note a piè pagina: la salvezza». Così Krüger in «Hotel Europa», variazione sul tema della disgregazione. Ma perché Mimesis salva? Auerbach lo scrisse in esilio, in fuga dal nazismo. Non aveva con sé molti libri, e la biblioteca di Istanbul (luogo più volte citato da Krüger) non bastava. Mimesis, scritto par coeur, è di per sé una stanza europea della memoria, procede nel nesso tempo-realtà e lavora alla sua ri-costruzione. Un’opera di autobiografia intellettuale, sul ciglio di perdite e morte. Spostare l’ora di Michael Krüger è anch’esso un discorso sul tempo e sulla realtà «senza note a piè pagina», nel sermo humilis biblico e dantesco, ripreso da Auerbach, e ben congeniale al poeta e alla sua traduttrice, a sua volta poetessa, Anna Maria Carpi.
Spostare l’ora: «L’ora legale è l’unico intervento che ci è dato fare sul tempo. Ben altri ne invoca il desiderio di non morire di questo poeta che si è autodefinito vecchio amico della morte», scrive Carpi. E non c’è differenza tra la nostra presenza nel mondo e quella di un albero, che anzi probabilmente ci sopravvivrà. Si pensi al melo «come me venuto al mondo durante la guerra». Del resto la morte di certi alberi (si veda la «Morte della betulla») ha lo stesso impatto emotivo della morte degli amici.
Il tempo ha le sue scansioni: stagioni, fioriture. I ritmi della storia sono cancellati dalla vegetazione (in Polonia guardando le mucche al pascolo nessuno penserebbe di trovarsi in quello che fu il granaio della Prussia). Ma cippi mnestici umani restano, e sono le morti degli amici, le vite altrui ricapitolate. Il momento generatore di senso è però solo l’infanzia: è lì che la dimensione umana si allaccia al tutto, attraverso il suono di parole, come piccole madeleine da gustare. Zimt (cannella) ha il calore di una nonna sopravvissuta alla guerra stringendo ancora quattro stecche della spezia profumata. L’infanzia è il piacere degustato in parole e cose, persino nei ciottoli, del tutto ignari delle leggi di natura o cultura. Ma il poeta sgombra ogni sospetto regressivo: «Troppo tempo ci vuole / perché ci rimandino / nell’infanzia, quando le parole avevano tempo / di mostrare la loro bellezza». E noi lettori rischiamo di essere fuori tempo massimo. Occorre «Una tarda cognizione / acquisita in debolezza». Niente di eroico, né sacro, né sublime.
Non ingannino le date liturgiche e profane: Pentecoste, Capodanno, Primo dell’anno, Le Palme, Pasqua. E le stagioni, tutte e ripetute. Il libro finisce con la ‘seconda’ mietitura, e un risorgere tardivo di germogli, quasi possibilità di seconda vita, a sfidare la grande Falciatrice. Stagioni e liturgie incrociano le latitudini, in un canto della terra vista da lontano, nel tempo lungo di chi si ripensa, non come «Io» allo specchio, ma come occhio, orecchio attento.
Accade così lo «sgombero» delle parole inutili. Scrivere, tradurre, pubblicare, sarà davvero questo l’essenziale? Detto da un editore, poeta, scrittore, suona sconfitta. E invece no: accanto ad animali e piante, fantasmi di cari scomparsi, storie bibliche, leggende e fiabe dei boschi, si impara dagli uccelli a vivere di briciole, dal melo a rifiorire, insomma, ad «amare la vita» (con un illustre precedente, Fellini): «Tutto si comprende facilmente / se si ama la vita. / Tutto è facile sotto le nuvole / che se la battono / al primo vento che capita».
Nonostante gli sforzi di distacco, Krüger si porta dentro un poeta come lui mai fuggito dalla vita activa: Heinrich Heine. E non solo per i titoli di alcune poesie: «Maggio» fa pensare all’«Intermezzo lirico»; «Io non so che vuol dire» per qualunque tedesco fa scattare le note della «Lorelei». Né solo per i versi su dèi in congedo mimetizzati con la folla, che ricordano molto da vicino le situazioni degli heiniani Dei in esilio. Come Heine, Krüger affida alle chiuse delle sue poesie una gnome amara, che rovescia la dolcezza di accenti e pensieri in cui il lettore già si culla. Ma proprio pensando a Heine, non dobbiamo prendere questo canzoniere sul tempo in modo troppo filosofico. Siamo al volgere del giorno verso il tramonto (ovvero tarda estate, mietitura, ora azzurra della vita). È in questa luce, e senza note a piè pagina, che Krüger ci offre le sue immagini riflesse, persino quando parla di «illuminazioni» sui ciottoli di una costa del sud: «Ma è ovvio che anche gli specchi possono sbagliare».