Golpe falliti, golpe smentiti: il fallimento dello Stato libico è palese, un’instabilità che svela le falle della strategia italiana nel paese nordafricano. Dopo l’ennesimo putsch-bluff a Tripoli, la situazione è tornata sotto controllo ma Roma appare sempre più sola nel sostegno al governo di unità plasmato dall’Onu a dicembre 2015.

Due dichiarazioni hanno ieri fatto traballare i tentativi del governo italiano di imporre il nuovo corso, sotto l’egida del premier di unità al-Serraj, e simbolicamente rappresentanti dalla riapertura dell’ambasciata a Tripoli.

La prima è quella rilasciata dal governo di Tobruk, passato da esecutivo legittimo per la comunità internazionale a entità ribelle: il Ministero degli Esteri del premier-ombra al-Thani ha definito il ritorno della rappresentanza diplomatica italiana «una nuova occupazione», pari ad un intervento militare.

«Una nave militare italiana carica di soldati e munizioni è entrata nelle acque territoriali libiche – dice la nota del Ministero pubblicata sul Libya Observer – È una chiara violazione della carta delle Nazioni Unite e una forma di ripetuta aggressione». L’Onu, insomma, viene ripescato quando serve.

Nel frattempo, per Tobruk, continua a muoversi il generale Haftar, capo dell’esercito che controlla la Cirenaica e che tre giorni fa ha fatto visita all’incrociatore russo Kuznetsov, ultimo di una serie di incontri con le autorità di Mosca.

Secondo il quotidiano panarabo al Quds al Arabi, Haftar avrebbe raggiunto un’intesa con il Ministero degli Esteri russo per la creazione di una base militare di Mosca in Libia a fini di manovre militari sul Mediterraneo. Già a inizio dicembre fonti libiche parlavano di uno scambio di simil fattura: armi russe ad Haftar in cambio di una base vicino Bengasi.

Una prospettiva che stravolgerebbe l’attuale (dis)equilibrio dei poteri, con l’Italia alla caccia di unità, la Francia interessata alle commesse petrolifere in Cirenaica, gli Stati Uniti sempre più defilati e l’Egitto che, garantito appoggio ad Haftar e riavvicinatosi alla Russia, farebbe da puntello all’eventuale intervento moscovita.

La distopica realtà istituzionale libica sta sullo sfondo, con due governi e due parlamenti (situazione che sembrava essere stata superata dopo l’accordo marocchino), un ex premier che con cadenza regolare prova a riprendersi il potere (Khalifa Ghwell, capo del disciolto governo islamista di Tripoli) e milizie sparse sul territorio al soldo di poteri più o meno ufficiali.

Una frammentazione tanto radicata da investire anche gli stessi fronti: ieri Tobruk ha condannato l’apertura di una sua “filiale” a Tripoli, tentata da alcuni dei suoi membri nella capitale.

È con questo paese che l’Italia avrebbe stretto un accordo sui migranti, esaltato pochi giorni fa dal ministro degli Interni di Roma Minniti. Aveva anche ricevuto il plauso europeo, tanto da far dire a Bruxelles e Malta di voler fare lo stesso: il premier maltese Muscat e il commissario Ue all’Immigrazione Avramopoulos parlavano giovedì della necessità di replicare entro primavera l’intesa, sul modello di quella raggiunta con la Turchia.

Ma ieri l’accordo di Minniti è stato smentito proprio dalla Valletta. Questa la seconda dichiarazione che fa tremare l’impalcatura italiana: il ministro degli Esteri maltese Vella, dopo averne discusso al telefono con il governo al-Serraj, fa sapere che Tripoli non ha mai dato il via libera all’intesa-migranti con l’Italia e che «è lontana» dall’accettare. I libici stanno considerando l’idea, ha aggiunto, ma ad ora «le posizioni sono totalmente diverse».