Due famiglie e due diversi continenti: l’America e l’Oceania. Un nucleo familiare – su cui grava l’assenza della figura materna – abita in una zona rurale degli Stati uniti ed è composto dal padre e due figli: un bambino e una ragazza adolescente che è la protagonista del cortometraggio di Joe Nankin, Deep Blue, in concorso nella sezione Pardi di domani del Festival di Locarno. La ragazza si chiama Eva ci informano i titoli di coda, dato che nel corso dei quindici minuti di durata del film di Nankin nessuno la chiama mai per nome, e gli stessi dialoghi si limitano a un paio di battute pronunciate sottovoce: non a caso il regista è autore soprattutto di video musicali .

Quello della sua protagonista è un nome biblico, e infatti Eva viene da una famiglia particolarmente devota, appartenente alla comunità mennonita che con i suoi semplici abiti ottocenteschi colloca il film in un orizzonte quasi senza tempo, se non fosse per l’apparizione – nel buio della notte – del complesso industriale dove lavora il ragazzo di cui Eva è innamorata .
Nankin con il suo cortometraggio quasi muto tratteggia un personaggio e soprattutto un’atmosfera: il «profondo blu» che avvolge la protagonista alla vigilia del suo battesimo, il momento in cui i mennoniti e in generale tutti gli anabattisti accolgono Dio nelle loro vite, segno quindi dell’ingresso di Eva nell’età adulta. È una crisi umana e spirituale, di ragazza che scopre l’amore, il sesso e il tradimento al di fuori dei limiti imposti dalla sua appartenenza religiosa.

Il suo ingresso nell’acqua per ricevere il battesimo è replicato da quello di un’altra adolescente, Jenya, protagonista di Each to their Own, il cortometraggio sempre in concorso di Maria Ines Manchego. La famiglia di Jenya, che abita in Nuova Zelanda, è speculare a quella di Eva: il padre è appena morto e lei, la madre e la sorellina affrontano il lutto e l’imminente trasloco a cui questa scomparsa le obbliga. Anche Jenya entra in acqua per farsi battezzare da un gruppo di cristiani rinati, spinta però dal desiderio di trovare un senso e un approdo in un mondo che le è crollato addosso, e in cui si sente quasi invisibile. Due smarrimenti, quelli di Eva e Jenya, in cui il rituale sacro di rinascere nella fede più che liberarle dall’angoscia conferma la loro dolorosa condizione fin troppo umana.

Una donna adulta, Rocio, è invece la protagonista di Valparaiso, il cortometraggio in concorso di Carlo Sironi che si apre tra le mura del Cie di Ponte Galeria, a Roma. Rocio, sudamericana, resta incinta – si rifiuta di dire chi sia il padre – e questo le consente di non venire rimpatriata e di essere rilasciata con un permesso maternità. Un gesto che al rispetto della «sacralità» della maternità lega a doppio filo l’ipocrisia di chi subito dopo abbandona la madre a se stessa. Sola in un paese straniero e impreparata a essere madre, Rocio lascia infatti il suo bambino appena nato in una clinica e gli volta le spalle, salvo poi trovarsi a pensarlo continuamente.
Inizia così il suo percorso «a posteriori» di scoperta dell’istinto materno, l’avvicinamento all’idea e soprattutto al desiderio di essere madre. Nella speranza che non sia troppo tardi.