Il sole una palla di fuoco che illumina di rosa i campi circostanti. Una fattoria bianca sulla collina. Nella stalla adiacente, montagne di ferraglie e circuiti, amorevolmente assemblati in «invenzioni», che però non funzionano. Nella buca delle lettere una montagna di bollette non pagate. Transformers 4: l’Era dell’Estinzione (sugli schermi italiani dal 16 luglio) , apre come un costosissimo spot su un idilliaco paesaggio americano da Fifties, in un luogo identificato (per l’audience potsglobalizzazione), come Texas, Usa. Mark Walhberg è Cade Yeager, un Archimede Pitagorico di provincia, vedovo e senza un soldo, accudito con quasi esasperazione dalla figlia teen ager Tessa (Nicola Peltz).

Come prevedibile, Michael Bay, il detestatissimo e inarrestabile autore della più ambiziosa, incompresa, incomprensibile, affascinante, delirante e monumentale franchise hollywoodiana del terzo millennio non concede molti dei 166 minuti («uno in più dell’Andrei Rublev di Tarkovsky» ha notato con esasperazione Andrew O’Hehir su «Slate»…) del suo nuovo film ad evocare Norman Rockwell.

Entro breve – ma non prima di essersi preso la soddisfazione, lui, l’autore più accusato di aver ucciso il cinema, di far cominciare la storia in un cinema abbandonato che Cade vorrebbe salvare – Bay sprigiona contro quel quadretto famigliare, analogico, lineare, tutta la forza d’urto del suo immaginario che di lineare, analogico, rockwelliano e famigliare non ha proprio nulla.

E, insieme a un vecchio camion scassatissimo nascosto nel cinema, che si rivelerà esser Optimus Prime (il capo dei Transformers), presto arriveranno alla fattoria degli Yeager gli strascichi della colossale «battaglia di Chicago» (Transformes 3: Dark of the Moon, tuttora il più bello, con quel suo titolo un retro Pink Floyd), seguiti da una squadraccia di neri, sadici sgherri della CIA, da un gigantesco cacciatore di taglie spaziale con la faccia da serpente, dal fidanzato irlandese di Tessa e da un esercito di Tranformers replicanti, cucinati nel laboratorio di una multinazionale comandata da Stanley Tucci, a partire dai frammenti della testa del peggior nemico di Optimus Prime, Megatron.

La trama, come sempre, è confusissima, la mitologia anche. Per seguire basta sapere che l’alleanza tra uomini e robot è finita e che, traditi dagli umani, i Transfomers sono sulla lista dei «wanted», sia sulla Terra che in altre galassie.

Dal Texas, a Langley, alle macerie di Chicago in corsa sfrenata verso il gran finale a Hong Kong (la Cina è il secondo mercato cinematografico del mondo e, con incassi favolosi ha già ampiamente ripagato l’omaggio di Bay), macinando product placements uno dopo l’altro, come pop corn (Budwiser, Gucci, Armani, Ducati, Victoria Secret…) Transformers- L’Età dell’Estinzione combina il suo sfrontato cinismo commerciale e la sua monumentale distruttività all’incanto dei film dipinti di Stan Brakhage e alla purezza teorica del 3D fatto in casa di Ken Jacobs.

Le forme gigantesche dei robot in continua, sempre più vertiginosa, compo/scomposizione sono di una bellezza straordinaria, un’esperienza di cinema astratto in versione blockbuster, un’ossessione d’autore da 165 milioni di dollari (secondo il budget ufficiale, ma saranno molti di più), di cui la critica detesta la disumanità (quando, all’inizio del film, muore un Transformer, viene da piangere; quando rimane incenerito l’amico di Yeager, non ti fa un baffo) e la mancanza di filo logico ma, dietro al quale – stanno cominciando a sospettare- si cela «un film d’arte». Magari un po’ noioso, come ha scritto il critico del New York Times A.O. Scott.
Concettuale laddove Christoper Nolan è concettuoso, Michael Bay è l’antitesi del regista inglese di Inception, le cui premesse pretenziose soddisfano più facilmente le aspettative dello spettatore «colto».

Bay è un autore di puro istinto visivo, sfrontatamente volgare, occasionalmente autoironico (come in Pain and Gain- Muscoli & denaro), e con una passione fisiologica per il cinema. Non a caso (come fece con Joe Dante negli anni ottanta/novanta) l’ombra di Steven Spielberg (in qualità di produttore) veglia sempre fedele sui Transformers, libera di «fare cinema» spericolato, e lontano dagli obblighi della sua immagine più istituzionale.

Spielberg sembra ancora più presente in questo capitolo numero 4 dove, dal sottosuolo di una folta, spettacolare, boscaglia cinese circondata da rocce grigie, emergono a spalleggiare i Transformers, i Dinobots, immensi dinosauri metallici e una nuova famiglia di giocattoli Hasbro, forse (ma forse no) risultati da un incrocio con alieni arrivati sulla terra milioni di anni prima, che presumibilmente Bay vuole coinvolgere in futuri capitoli.

Come nel secondo e nel terzo sequel, L’Età dell’Estinzione riserva il meglio per gli ultimi cinquanta minuti, in cui – un po’ come aveva fatto con Chicago – Bay mette a ferro e fuoco mezza Hong Kong, patria di uno dei cinema d’azione migliori del mondo e già teatro (anche lì un calcolo di mercato) del gran finale di Pacific Rim di Guillermo del Toro. Come se non bastassero Wahlberg, i Transformers e un T-Rex Sputafuoco scatenati per le strade dell’ex protettorato inglese, dal cielo arriva anche un’astronave che prima risucchia e poi risputa auto, giunche, piroscafi e pezzi di città. No, Bay non e un regista fine o dalla mezze misure.. E questo quarto capitolo non è bello come il precedente, ma è un film ipnotico che sfida, affascina, e reinventa, lo sguardo.