Quando ha compiuto ottant’anni nel 2010, Derek Walcott ci ha regalato un ricco banchetto di poesia che ora esce da Adelphi per la traduzione del fedele e bravo Matteo Campagnoli, Egrette bianche (pp. 189, euro  19,00). Nel settecento era un uso frequente in Inghilterra che per festeggiare un tale compleanno, allora non facile da raggiungere, si offrisse un generoso banchetto agli amici di una vita, con il rischio di un totale svuotamento della borsa, come accadde alla vanitosa amica del dottor Johnson, Mrs Thrale. Walcott infatti chiude questa raccolta di poesia con il vago timore di avere esaurito quello che chiama il suo «dono», la sua vena poetica, così abbondante e imprevedibile, fuori da ogni moderna scuola o etichetta, confessionale o epica, realista o espressionista, di paesaggio o d’atmosfera. Poeta religioso o semplicemente l’ultimo panteista?

Luminoso, innamorato della luce divina come Dante, o invece un generoso illuminista? Potrebbe vantare un antico antenato inglese da cui avrebbe preso il gusto per la dizione alta, il tè, Omero e l’Italia, il tratto pragmatico e deciso, e una salutare distanza dalla politica ma non dalla tradizione. Forse un figlio cadetto di latifondisti tory, protestanti, fu mandato a cercar fortuna in quell’isola sperduta dei Caraibi, St Lucia, conquistata a metà settecento. Ufficiali colti battezzarono quei luoghi con nomi classici, esportarono le buone maniere e il senso di sicurezza che l’impero inglese garantiva ai suoi innocenti e indifesi sudditi, Caribi, Aruachi, Taino. Ci fu un innesto neoclassico, che crebbe alla luce verde della foresta pluviale, di fronte alla baia d’argento, tra i morbidi fumi della solfatara, salutato dall’alba magica che si affaccia all’orizzonte.

Nel discorso pronunciato quando ricevette il Nobel, Walcott riconobbe il suo debito e il suo compito: «C’è un’esultanza fortissima, una celebrazione della fortuna, quando uno scrittore è testimone degli albori di una cultura che si definisce da sé, ramo dopo ramo, foglia dopo foglia, in quell’aurora foriera di autodefinizione, ed è per questo che, specialmente in riva al mare, è una bella cosa che l’alba diventi un rituale. Poi il sostantivo, ‘Antille’, s’increspa come acqua che inizia a luccicare, e i suoni delle foglie, delle palme e degli uccelli sono i suoni di un dialetto giovane, la lingua natia. Il lessico personale, la melodia individuale che ha per metro la biografia di ciascuno si unisce, con un po’ di fortuna, a quel suono e il corpo si muove come un’isola che si risvegli».

Nel 2010 Egrette bianche è stato premiato con il T.S. Eliot Prize for Poetry, a sottolineare una inaspettata continuità con l’autore che in Tradizione e talento individuale aveva scritto come il senso storico imponga al poeta maturo la consapevolezza che il passato non è mai passato, ma è anche presente.
Raccomandava che la poesia fosse scritta non solo con «la sensazione fisica, presente nel sangue, di appartenere alla propria generazione», ma anche con la consapevolezza che tutta la letteratura da Omero in poi gode di «una esistenza simultanea e si struttura in un ordine simultaneo», nutrito non solo del presente, ma anche del «momento presente del passato». Walcott, che non ama Eliot, ripete che la poesia coniuga simultaneamente passato e presente, il passato è la testa di marmo neoclassico e il presente le gocce di rugiada o di pioggia che bagnano quella fronte. E lo segue fino al punto di interrogarsi – lui storicamente un postcoloniale, nato in quel luogo desertico dove l’impero inglese aveva piantato arbitrariamente le proprie insegne – sulla sua ambigua entità di colono, di espropriato, derubato, perdente ma anche di ladro, profittatore e da ultimo vincitore, in una situazione imprevedibile in cui le due identità si sono saldate nel ritorno alla casa comune, colpita dal disastro, dalla perdita, dalla bruttezza.

La drammatica riflessione si svolge in tre tempi i cui titoli sono indicativi: L’impero perduto: «E poi all’improvviso non ci fu più alcun Impero/ Le sue vittorie furono aria, i suoi domini terriccio:/Birmania, Canada, Sudan, Africa, India, Egitto»; Lo spettro dell’impero: «Lungo i moli conradiani del porto arrugginito, tra contorte uve di mare su graticci incrostati,/ fino alla salva degli alberi fiammeggianti del vecchio forte inglese,/ attende, lo spettro bianco di un altro tempo…»; «Lettore, pensa ai trattati siglati da quella mano inanellata, /pensa alla vastità che il suo potere abbracciava.» E, infine, Un pomeriggio londinese di cui lui stesso è l’attore al centro della scena: «Fuori la Londra estiva, i clienti, il portiere, i taxi/ i cliché consolanti per cui sei tornato,/ben accetto, ma non assimilato, le piccole estasi/di sentirsi a casa, o quasi, nel rumore garbato/ del traffico verso sera; c’è tutta l’attrezzeria di scena…». Quell’attrezzeria di scena che, un secolo prima, aveva incantato un altro grande ex-colono Henry James, fino a che non si vide sbattere in faccia i suoi romanzi dal marito di George Eliot.

Derek Walcott è uomo di teatro e sa bene che la sua personale odissea deve legarsi a una situazione, a un tema, a un protagonista, ossia a se stesso e alle libere e sapienti egrette bianche, sue alter ego. Le felici tessere poetiche che compongono questa eccezionale autobiografia, perfette e compiute in se stesse si legano, l’una all’altra con movimento fluido, iridescenti di sensazioni visive e uditive, ma anche oscurate a tratti da cineree ombre di morte, morte della sua poesia, dell’amata, del corpo stanco.

Parte per tornare e assaporare l’evento dolcissimo del ritorno in tutte le sue promesse, della morte scampata, del fragore appassionato dei marosi: tornare a St Lucia, tornare a Londra, in Sicilia, in Spagna; amare benché non riamato, ma sempre pronto a mimare il consenso, l’abbraccio, come resurrezione, creazione. «Con l’agio di una foglia che cade nella foresta,/ un giallo pallido che rotea sul verde – la mia fine./ Presto verrà la stagione secca, le colline arrugginiranno,/ le egrette affondano i colli ondulanti, chinandosi,/ becchettando vermi e larve dopo la pioggia;… Condividiamo lo stesso istinto, il vorace cibarsi/ del becco della mia penna, quel raccogliere insetti/che si dimenano come nomi e ingoiarli, col pennino che legge/ mentre scrivo e scrolla via quello che il becco rigetta.»
Solo per l’interposta mediazione delle amate egrette tocca qualche accento metafisico, la trascendenza in punta d’ala. «La selezione è ciò che insegnano le egrette/ sul prato ampio e aperto, la testa che annuisce mentre leggono/in risoluto silenzio, una lingua al di là delle parole». A suggerirgli la poetica sono ancora loro, le sapienti egrette. Derek Walcott è anche pittore che, deposta per disgusto la palette, ora dipinge con parole ornate di colori smaglianti, ma anche riecheggianti del fruscio delle foglie, dello sbattere d’ali, del tambureggiare di una pioggerella sottile.

In Suite siciliana il canto è bloccato in un dolore senza via d’uscita, in suoni e colori vorticosi, in barocche volute che secretano il senso e la pena. Fuori dalla pastorale caraibica, nel bagliore di una violenta illuminazione, rintocca l’antica tragedia: impotenza e colpa. Una figura femminile, amata, tradita, morta, nemica, lo perseguita o gli sfugge, in quel paesaggio infuocato, splendido e ostile. La pace lo attende di ritorno a St Lucia, e l’ isola si racconterà in ondate silenziose, in strade che si potranno leggere, e sul filo dell’orizzonte si disegneranno navi, golette, antiche canoe. Ma una nube ricopre la pagina, scivola via, e la pagina resta bianca, per sempre monda di scrittura.