Il giudizio che domani sarà emesso dalla Corte costituzionale sull’ammissibilità dei tre referendum sul lavoro sarà una delle pronunce più importanti della storia repubblicana. Esso investe le garanzie del lavoro, cioè del valore supremo sul quale, come dice l’articolo 1 della Costituzione, si fonda la Repubblica.

Sul piano giuridico l’ammissibilità è assolutamente pacifica. Nel dibattito di questi giorni sono state avanzate due obiezioni al referendum più importante, quello contro i licenziamenti arbitrari: il quesito avrebbe un contenuto eterogeneo e un carattere propositivo anziché abrogativo.

Obiezioni infondate.

E’ pur vero che il quesito investe più testi di legge: non solo il decreto legislativo n. 23 del 4 marzo 2015 sul cosiddetto Jobs Act, ma anche l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nella parte in cui limita alle imprese con più di 15 dipendenti la garanzia reale della reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato, richiedendone l’estensione anche alle imprese con più di 5 dipendenti. Ma il contenuto del quesito è perfettamente omogeneo, dato che riguarda unicamente disposizioni che limitano l’applicabilità della garanzia reale introdotta dall’art. 18 dello Statuto. Per talune di queste ulteriori disposizioni la richiesta di abrogazione è addirittura obbligata, dato che si tratta di norme connesse e per così dire conseguenti a quelle su cui principalmente verte il referendum.

Quanto al supposto carattere propositivo che così assumerebbe il referendum, si tratta di un tratto distintivo di gran parte dei referendum abrogativi, che ovviamente finiscono per introdurre una disciplina del tutto nuova rispetto a quella abrogata. Nel caso dell’art. 18 viene semplicemente abrogato il limite numerico dei 15 dipendenti che le imprese devono avere perché la garanzia reale sia ad esse applicabile, con il risultato che a tutte le imprese viene esteso il limite di 5 dipendenti che il vecchio art. 18 prevedeva per le sole imprese agricole. Ben altre abrogazioni manipolative sono state ammesse in passato.

Addirittura, con i referendum abrogativi di Mario Segni del 1993, si produssero la trasformazione del nostro sistema elettorale da proporzionale in maggioritario e il cosiddetto passaggio dalla prima alla seconda Repubblica.

Sulla questione, del resto, la Corte costituzionale si è già pronunciata. Entrambe queste obiezioni furono dichiarate infondate dalla sua sentenza n. 41 del 2003, che ammise un referendum sull’estensione dell’articolo 18 di portata innovativa e propositiva ancor più ampia di quella proposta dalla richiesta attuale.

Il quesito di allora riguardava non due, ma tre leggi: parti dell’art. 18 dello Statuto del 1970, ma anche parti delle leggi n. 108 del 1990 e n. 604 del 1966. Soprattutto, inoltre, esso proponeva la soppressione integrale dei limiti numerici previsti dall’art. 18 per la reintegrazione dei lavoratori illegittimamente licenziati, la cui garanzia veniva così estesa anche all’unico dipendente che fosse licenziato senza giusta causa. Quel referendum, approvato dall’86,74% dei votanti, non raggiunse il quorum.

Ma esso fu ammesso dalla Corte Costituzionale, che riconobbe l’omogeneità, la chiarezza e l’univocità del quesito, certamente minori di quelle del quesito oggi proposto: «Il referendum», dichiarò la Corte, «è rivolto in primo luogo all’estensione della garanzia reale contro i licenziamenti ingiustificati ai lavoratori che attualmente, in conseguenza dei limiti numerici sopra ricordati, godono esclusivamente della garanzia obbligatoria» consistente nel pagamento di un’indennità in denaro.

Ebbene, non si vede come la Corte, di fronte a un quesito di portata addirittura più limitata, possa oggi cambiare la sua stessa giurisprudenza senza esorbitare dalle sue competenze con una pronuncia politica ben più che giurisdizionale.

La Corte, infatti, non ha il potere di sindacare il merito del quesito referendario. Deve solo accertare due condizioni: che le norme oggetto del quesito non appartengano alle materie per le quali l’art. 75 della Costituzione esclude il ricorso al referendum abrogativo (le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia, di indulto e di ratifica dei trattati internazionali) e che il quesito abbia un contenuto chiaro, univoco e omogeneo come è esemplarmente quello oggi in discussione. Il giudizio di ammissibilità deve insomma riguardare soltanto questi requisiti della richiesta di referendum, se non vuole risolversi in un’indebita limitazione della sovranità popolare, in ordine oltre tutto a una questione di fondo come è la garanzia della stabilità del lavoro.

Sono dunque questi due principi supremi stabiliti dal primo articolo della nostra Costituzione – il lavoro su cui si fonda la Repubblica e la sovranità appartenente al popolo – che il giudizio della Corte sull’ammissibilità di questo referendum è tenuta a rispettare.

E’ anzitutto in questione, con la garanzia reale della reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato, la migliore e più rilevante attuazione dell’art. 1 della Costituzione che fa del lavoro il fondamento della Repubblica.

Non si tratta, infatti, di una qualsiasi garanzia. Si tratta di un principio che, in conformità anche con gli artt. 4 e 35 della Costituzione e con l’art. 30 della Carta dei diritti dell’Unione Europea, ha cambiato radicalmente la natura del lavoro, non più trattabile come una merce, ma trasformato in un valore non monetizzabile. Il referendum in discussione intende difendere questo valore su cui si fonda la Repubblica, affidando tale difesa al voto degli elettori, cioè all’esercizio diretto della sovranità popolare.

Di qui l’importanza del giudizio di domani. La sostituzione, operata dalle norme sottoposte al referendum, della garanzia reale della reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore licenziato senza giusto motivo con la garanzia patrimoniale del pagamento di una somma di denaro ha annullato la dignità del lavoro, trasformando il lavoratore da persona in cosa, dotata non già di un valore intrinseco ma di un valore monetario.

Si ricordi la massima di Emanuele Kant: ciò che ha dignità non ha prezzo, ciò che ha prezzo non ha dignità.

Nel momento in cui si dà un prezzo all’ingiusto licenziamento, cioè alla persona di cui il datore di lavoro intende sbarazzarsi come se fosse una macchina invecchiata, si toglie dignità al lavoro e alla persona del lavoratore trasformandoli in merci.

E’ questa operazione, non meno dell’assurda mercificazione e precarizzazione del lavoro attuata con i voucher, che i referendum chiedono di sopprimere. A tutela non solo del lavoro e dei lavoratori, ma della stessa identità democratica della nostra Repubblica.

Sarebbe grave se la Corte, massimo organo di garanzia dei valori costituzionali, respingesse anche uno solo di questi referendum che proprio quei due valori supremi della nostra Costituzione – il lavoro e la sovranità popolare – intendono affermare.