Un trafiletto in fondo alla prima pagina di The Times of India sabato 12 novembre annuncia: «Le riforme di Trump potrebbero aiutare i migranti indiani». L’articolo spiega che la costruzione di un muro al confine messicano, insieme ad altre restrizioni all’immigrazione illegale, «aiuterà migliaia di Indiani,soprattutto quelli con alto grado di istruzione già residenti negli Stati Uniti che si sentono danneggiati perché il sistema favorisce gli immigrati illegali che spesso beneficiano di amnistie».

Molti immigrati indiani, continua l’articolo, hanno votato per Trump «sperando che l’amministrazione dia la priorità agli immigrati legali, il che li favorirebbe».

La sfacciataggine di questo ragionamento ci aiuta a capire alcune delle debolezze impreviste nella composizione della coalizione di elettori di Hillary Clinton. In altre parole: non tutti gli immigrati, non tutte le minoranze sono la stessa cosa, non tutte sono uguali – non sono uguali fra loro, non sono uguali al loro interno, e non sono necessariamente fra loro solidali. La campagna di Clinton ragionava invece sulla base di gruppi demografici e blocchi elettorali – afroamericani, latini, donne… – considerati come omogenei e compatti, come se l’identità delle persone dipendesse da un solo fattore dominante. Se non sono bianchi e maschi, votano Clinton. E invece non è andata così. O meglio: è andata cosi, ma non abbastanza.

Nella realtà fuori dalle statistiche, dai sondaggi, dall’ideologia essenzialista della «etnicità», e persino dalla politica di genere, nessuna persona appartiene a una sola identità, a un singolo gruppo etnico. Gli afroamericani, per esempio, sono americani anche loro, possono essere nazionalisti (memorie di Condoleezza Rice) e quindi non ostili all’idea di «fare grande l’America»; i maschi fra loro possono essere maschilisti e omofobici non meno (talora, di più) del resto della popolazione; subiscono il razzismo ma non è detto che si sentano solidali con altre minoranze invece che in concorrenza con loro (è dal tempo della guerra alla povertà degli anni ’60 che i vari gruppi vengono messi in competizione per spartirsi i contributi pubblici); possono essere, spesso sono, anche loro lavoratori resi precari dalla crisi, che si sentono minacciati dai «clandestini messicani»…

Certo, black lives matter; ma se con un presidente nero la polizia continua ad ammazzare i neri e non succede niente, la speranza barcolla.

E i latini? A votare non ci vanno i clandestini e gli illegali che Trump vuole chiudere fuori o cacciare via; ci vanno quelli che sono legali, che sono cittadini, che magari sono anche lavoratori e che possono avere le stesse errate e ingiuste ragioni dei lavoratori bianchi per proteggersi sul mercato del lavoro – chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori, anche viene dal mio vecchio paese e parla la mia lingua. Le donne? Ma come si fa ragionare su classe e genere come se tanta classe operaia non fosse fatta di donne e tante donne non fossero lavoratrici – e come se comunque anche i bianchi maschi operai non avessero famiglie con le stesse preoccupazioni? Le donne bianche delle classi popolari hanno votato Donald Trump al 62 per cento.

Tutto questo non è certo bastato a indurre la maggioranza di neri, latini, donne delle classi istruite, e votare per Trump (però: la Cnn ci informa che, per quanto irrisorio, il voto nero e latino per Trump – rispettivamente, 8 e addirittura 29% – è più alto di quello per Romney quattro anni fa).

La grande maggioranza di loro ha fatto la cosa giusta e ha votato per Clinton, anche se in percentuale minore (donne comprese) di quanto avevano votato Obama.

Ma è bastato che una parte piccola ma decisiva di tutti loro – neri, latini, donne… – si domandasse che cosa aveva Hillary Clinton da offrirgli per le condizioni concrete in cui vivono, decidesse che non bastava, e non andasse a votare, per influire pesantemente sul risultato. Clinton si aspettava una crescita di voti afroamericani e un’ondata (surge) di voti latini. La percentuale di afroamericani sul numero complessivo di votanti è scesa dal 13 al 12 percento, e il lieve aumento di voti latini è bastato appena a compensarla. Così, l’astensione è risultata decisiva in più di uno stato cruciale: per esempio: la Pennsylvania (che nel 2012 aveva dato una chiara maggioranza a Obama) è andata a Trump per 68.000 voti; rispetto a quattro anni prima, sono andati a votare 130.000 elettori di meno.

Ci sono molti altri elementi, naturalmente – per esempio le consapevoli politiche di stati governati dai repubblicani intese a rendere più difficile il voto afroamericano (per esempio, non aprendo seggi nei loro quartieri).

Oppure quel perverso sistema elettorale che dopo una campagna durata un anno e mezzo per ridurre a due sole le scelte offerte agli elettori, fa vincere quello dei due che ha meno voti. O il fatto che il più grosso spostamento di voti è avvenuto fra gli elettori con redditi inferiori ai 50.000 dollari che avevano votato Obama fino al 2012 (ma non erano anche allora gli stessi bianchi omofobi e razzisti di adesso?) e sono passati a Trump quest’anno.

Ma non bastano per farci ignorare la vera e propria lezione antropologica di queste elezioni: perdere il contatto con il paese e con gli elettori significa etichettarli come astrazioni monodimensionali e non come persone, con tutte le stratificazioni e le complessità che ogni essere umano si porta addosso.

Un po’ meno sondaggi, direi, che si fanno di corsa e superficialmente; un po’ più storie di vita, che sono lunghe e vanno in fondo; meno geniali strategie elettorali, più microstorie; meno griglie, più mosaici. Diceva Ivan Della Mea: dare etichette è sempre da coglioni, chi ci guadagna poi sono i padroni. Quanto aveva ragione!