Gli americani, da sempre, sono affascinati dai miti greci. Woody Allen lo fa in modo esplicito e colto nel 1995 ne La dea dell’amore, attraverso l’introduzione di un coro, ambientato nel teatro antico di Taormina, a punteggiare le vicende contemporanee del film. Ma la lista è lunga: Scontro tra titani (1981) di Desmond Davis; Troy (2004) di Wolfang Petersen; Agora (2009) di Alejandro Amenábar; Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo (2010) di Chris Columbus; Noah (2014) di Darren Aronofsky. Progetto di altra natura quello della figlia d’arte Gia Coppola, classe 1987 (abbreviativo di Gian-Carla, in onore del padre Gian-Carlo, nonno Francis Ford, zia Sofia): The mith of Orpheus and Eurydice, filmato di dieci minuti commissionato dalla casa di moda Gucci, sfoggia lussi e denari da ogni pixel. Lou Doillon (figlia di Jane Birkin, sorellastra di Charlotte Gainsbourg) e Marcel Castenmiller, modello e fotografo, efebico di bellezza quasi femminea, sono i protagonisti della rivisitazione stilosa del mito classico.

A metà tra videoclip e sogno – i fratelli Méliès a pranzo con Gondry – musica chill out, immagini patinate, soffuse da un velo di sfocatura generale (agli antipodi dello «smarmellamento» – grande luce diffusa che illumina l’intero set – di Boris, serie televisiva ironicamente tautologica di Torre-Vendruscolo-Ciarrapico).

I due elegantissimi protagonisti si sposano tra una folla di meravigliosi luminescenti scintillanti amici ornati di bombette, orecchini, colori dalla testa ai piedi. La quotidianità è tra mobili vintage, divani ricamati, gioielli e baci davanti a finestre affacciate sull’eclatante bellezza manhattaniana. Il pericolo (raffigurato da un’altra donna, che più chic non si può, in tunica monacale rossa) è in un bacio sul ponte tra i due sposi che diventa, di fatto, un bacio di addio. La separazione forzata. Il ritrovamento nel club esclusivo. Un uomo barbuto che pretende musica dal vivo e poi avverte (in italiano): «Puoi riaverla ma ricordati che se ti volterai a cercarla la perderai per sempre». I nostri eroi fuggono fino alla luce sovraesposta di una strada nuiorchese.

Non passano inosservati: anelli scarponcini stivaletti bomber con tigri ricamate, gonna luccicante di paillettes. Lei, scontrandosi con uno sconosciuto, lascia la mano del marito. Da dietro lo fissa, spaesata, richiedente. Allora lui si volta, immemore della raccomandazione barbuta. Occhi negli occhi. Un passante occulta la vista e lei è più lì. Inquadratura finale dall’alto: lui immobile nella strada, intorno «gli Altri» – le persone normali, banali, grigie, senza eleganza – camminano per i fatti loro. Silenzio assoluto. The end.

Viene immediatamente da chiedersi la funzione di questo breve film carico di lusso e citazioni, il senso di un’operazione costosa destinata alla promozione di un brand. A un pubblico composto di ordinary people sfugge l’urgenza di questo dispendio di denaro, forza lavoro ed energia. Ma continuiamo a camminare nella via, soli e perduti, senza gadgets né motivi floreali né cotanta vana bellezza.

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