L’ultimo tweet postato dalla fortezza di Trump Tower si è scagliato contro la parodia di Saturday Night Live che da un paio di settimane usa Alec Baldwin come sosia satirico del candidato. «Non fa ridere e andrebbe chiuso», ha sentenziato Trump dello storico programma della Nbc di cui lui stesso è stato ripetutamente ospite. Ma fa pensare che, se mai c’è stato, il senso dell’umorismo sia drasticamente diminuito nel quartier generale di Trump.

Colpa dei sondaggi che (in maggior parte) riflettono la sua caduta libera in una campagna elettorale degenerata in bagarre sulle molestie sessuali imputate al leader populista.
L’intervento di Michelle Obama ha espresso oltre ogni dubbio il disgusto, l’angoscia e la disperazione  delle donne americane dinanzi ad una recrudescenza così plateale di becero maschilismo come espressione di potere.

Pochi giorni dopo la pubblicazione del fuori onda con gli apprezzamenti di Trump, il sondaggista Nate Silver ha analizzato il «gender gap» fra gli elettori. Se votassero solo le donne Hillary Clinton seppellirebbe Trump per 458 voti elettorali a 80; gli uomini eleggerebbero Trump per 350 contro 188.  Il gigantesco divario dà la misura di come Trump abbia esacerbato spaccature e divisioni interne al paese su ogni fronte. Il suo populismo rancoroso ha dato licenza all’espressione di pulsioni recondite per impostare la campagna su basi puramente emozionali, deviandola su binari paralleli alla politica. Non deve quindi sorprendere che l’epilogo rifletta dinamiche prettamente berlusconiane.

Le prevaricazioni becere potrebbero essere la causa ultima della sconfitta di Trump ma rappresentare allo stesso tempo una vittoria riduttiva per i democratici. Il reality delle ultime settimane ha avuto anche l’effetto di oscurare problematiche cui il trumpismo, pur nella sua distorsione, ha dato voce. La campagna ha espresso infatti, anche se nel peggior modo, gutturale e apoplettico, una reazione a globalismo e globalizzazione, alla crisi di capitalismo e democrazia che avrebbero meritato una analisi ben più articolata. Come compete ai nazional-populismi, la critica a trattati di libero commercio e delocalizzazione è stata invece nebulosamente articolata in protezionismo e xenofobia anti immigrati e intrisa di un suprematismo bianco che ha esacerbato l’altra grande faglia tellurica della società Usa: i rapporti razziali.

Il partito repubblicano ha fatto buon viso, sperando di cavalcare la rabbia anti-esatblishment fino alla Casa bianca. È stato sin dall’inizio un sodalizio ipocrita e ora, con Trump sotto il fuoco incrociato, l’alleanza di comodo scricchiola vistosamente. Con un occhio ai sondaggi, il partito teme che l’impopolarità di Trump possa danneggiare i candidati al Congresso, costando potenzialmente il controllo anche del Senato e perdite alla Camera. Si è giunti allo spettacolo paradossale dei quadri di partito che fanno le capriole per prendere le distanze dal capo senza alienarsi gli elettori.

Accerchiato, Trump si scaglia ormai regolarmente contro i «traditori» del Gop, attaccando apertamente  ad esempio lo speaker Paul Ryan come «perdente» e voltagabbana che non fa il proprio mestiere di «appoggiare il candidato più popolare». E allo stesso tempo lancia accuse incendiarie: «Le elezioni sono truccate!». Dai suoi tweet emerge una paranoia quasi nixoniana e un lungo elenco di nemici: le false accusatrici, i democratici disonesti, la stampa faziosa, i finti alleati repubblicani e sopra a tutti l’accusa di frode elettorale.

La truffa che Trump  va annunciando da settimane sarebbe già in corso «su vasta scala»negli Stati (37) che ammettono il voto anticipato. Una strategia inquietante di contestazione preventiva che fa temere le potenziali intemperanze di un elettorato dalle congenite affinità apocalittiche e complottiste, già spinto alla frenesia dalla campagna esasperata.
È pur vero che in queste elezioni senza precedenti rimangono forti incognite. La natura stessa del trumpismo, che fa leva su settori marginali e «insondabili» di elettorato, impedisce di escludere a priori un effetto «Brexit». Una forte affluenza di una «maggioranza silenziosa» a fronte di un forte assenteismo e una disaffezione giovanile potrebbe dar luogo a sorprese. Seppur dovesse risultare perdente, il «popolo di Trump» costituirebbe una minoranza numerosa e agguerrita con cui la nazione dovrà fare i conti.