Immaginiamo una coppia di giovani a Manhattan, laureati, professionisti, buone letture, rigorosamente no junk food, viaggi in Europa. Benestanti. Progressisti. I classici liberal. Figli di famiglie liberal.

Immaginiamoli nel loro confortevole appartamento mentre guardano in tv uno dei tre duelli televisivi tra Clinton e Trump. «Ancora lei? Basta. Però quando affronta i temi, beh si vede che è preparata, ha studiato, sa quel che dice. Non ha il carisma di Bill, neppure di Barry, però è presidential. Specie se la mettiamo a confronto con quel cialtrone dalla zazzera antipatica, indisciplinato, maleducato, che straparla di muri di confine, che deride un portatore d’handicap, che s’inchina a Putin, che manda a quel paese gli alleati storici dell’America, che insulta i musulmani e i messicani, che denigra le donne, che fa promesse mirabolanti per la crescita. Più che ragionamenti un flusso di coscienza, libere associazioni. Ma davvero quel bullo lì può diventare il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Su, andiamo». Risa e sghignazzi.

Era il momentum di Hillary, l’onda che sembrava sospingerla senza più fatica verso la Casa bianca. Lo dicevano i sondaggi. Ma ancor di più
il circuito autoreferenziale del mondo progressista, delle città, delle università, delle élite.
Oggi, a poche ore dal voto, c’è poco da ridere. Trump, più che una macchietta, è una vera, reale, minaccia.

Eppure, già in quei giorni, quegli stessi dibattiti erano visti con occhi diversi da un’altra grande porzione d’America, l’America rurale, bianca, e l’America deindustrializzata dei centri un tempo floridi e oggi letteralmente arrugginiti.

Il New York Post, in occasione del primo dibattito tv, quello che a detta di tutti ha definitivamente incoronato Hillary, va a sondare gli umori in un bar di Youngstown, un’area degradata della Pennsylvania, un tempo ben messa. E intervista gli spettatori del duello tv. «Arrivati alla fine del dibattito, Clinton non ha detto una sola cosa da offrire a me e alla mia comunità», dice al Post Ken Reed, elettore democrat.

Nel commentare il servizio del Post, l’editorialista Leon Hadar osservava che tra Manhattan e Youngstown ci sono solo poche ore d’auto. Eppure sono due pianeti diversi. Planet Hillary e Planet Donald. Da cui si osserva il mondo in modo opposto.

Hadar, come diversi altri commentatori, spiega il fenomeno Trump con una chiave economica e di classe. Hillary, per la working class, è l’emblema dell’America benestante, sostenuta proprio per questo dalle élite urbane, è il simbolo di un potere politico che ha arricchito se stesso impoverendo «Joe», l’americano medio. Donald è il campione della lotta a tutto questo e ciò che è considerato il mix di cause, vere e mitologiche, che ha portato al declino americano.

Le due narrative in conflitto hanno un fondamento indiscutibile. Ma c’è un’altra dualità che conta. Psicologica, e non solo. Sul New York Times Ross Douthat osservava qualche tempo fa che, secondo la propaganda clintoniana, votare per Hillary, contro Trump, «non è solo un voto per una democratica contro un repubblicano, ma è un voto per la sicurezza contro il rischio, per la competenza affidabile contro l’incoscienza sbruffona, la stabilità psicologica alla Casa bianca contro le passioni ingovernabili».

Eppure proprio questo evidente contrasto rafforza il punto di vista dei trumpisti e, in qualche modo, alimenta l’incertezza degli indecisi, anche in campo democratico.
Douthat scrive che, tra i sostenitori di Trump, gira una sorta di slogan: «We’ve made sane, now let’s try crazy». L’abbiamo fatto da sani di mente, adesso proviamo a farlo da pazzi. È come in un volo dirottato da un gruppo suicida. I passeggeri cercano di entrare nella cabina di pilotaggio, non sanno niente di volo, ma cercano di fare quel che possono per scongiurare la catastrofe certa.
I pericoli di una presidenza Clinton sono noti. Quelli di una presidenza Trump, immaginabili. Ma più seri? Forse i rischi di un’amministrazione Clinton appaiono minori solo perché «familiari», eppure non ci vuol tanto a ricordare gli ultimi quindici anni di politica internazionale americana, nei quali Hillary ha avuto una parte importante.

Una politica che ha visto unite entrambe le parti politiche negli snodi cruciali.

Il voto all’intervento in Iraq fu largamente maggioritario. Fu un voto dell’establishment, non una leggerezza di Hillary e di altri politici del tempo.
Stesso discorso per la bolla finanziaria, figlia di un’economia alimentata da un establishment bipartisan.

Ecco perché Trump ha finito per essere visto come il paladino della riscossa contro lo status quo. Un voto per lui sarà un azzardo. Per Hillary una certezza, la certezza del ripetersi del già noto.

Che queste connessioni, che simili equazioni, abbiano senso non è importante, per elettori che pensano di non avere molto da perdere, puntando sul rischio sconosciuto. Eppure sfugge loro proprio l’evidenza di un candidato che si professa anti-sistema ma del sistema è figlio, non solo come imprenditore senza scrupoli e affarista che ha fatto soldi in combutta con la politica. Egli è figlio, sebbene non riconosciuto, di una destra americana che ha coltivato per un ventennio, con passione, l’odio, l’autoritarismo e la sopraffazione. Trump è tutto questo. Non è l’ignoto. Anche lui, come Hillary, è lo stranoto.