Uscito dalla torre brunita in cui progetta il prossimo governo, Trump è dilagato a tutto campo. Con la «tournée del ringraziamento» è tornato a concedersi al tifo dei suoi «ultras», la base di fedelissimi che lo ha acclamato in un palasport dell’Ohio.

Il neoeletto presidente in pectore ha ripreso le “greatest hits” della campagna, beato nell’assorbire l’ovazione della sua gente: assai più a suo agio nel ruolo di oratore populista che nella simulazione di statista delle ultime settimane.

Il festival del compiacimento è stato indetto per celebrare il landslide, ma invece di una vittoria a valanga, il voto popolare avrebbe registrato la sconfitta del trumpismo per oltre 2,5 milioni di voti.

IL TOUR DEL «TRIONFO» in realtà ha celebrato l’epico fallimento della democrazia americana in cui alcune decine di migliaia di voti distribuiti strategicamente nel collegio elettorale, hanno consegnato il paese ad una minoranza estremista ed autoritaria.

Per essa Trump ha ripercorso il repertorio di slogan elettorali dati in pasto alla platea acclamante che come da rito ha risposto con cori di «In galera!» (per Hillary Clinton) e «Usa, Usa!» quando il capo ha reiterato la minaccia di togliere la cittadinanza  a chi brucia la bandiera e posto i termini di una nuova autarchia americana: «Non esiste una bandiera globale, una moneta globale né una cittadinanza globale. Noi saremo fedeli ad una sola bandiera e resteremo uniti come americani!» ha esclamato. «Da ora in poi avremo un unica meta: prima l’America!».

PER RIBADIRE IL CONCETTO, il comizio è stato preceduto da una foto-op nella fabbrica Carrier di indianapolis. Un siparietto di demagogia in cui l’azienda di condizionatori è stata «convinta» a risparmiare 800 operai dal licenziamento e di sacrificarne «solo» 1.400 ad un nuovo impianto in Messico.

Un risultato ottenuto con 7 milioni di dollari di incentivi pubblici e la pressione sulla casa madre, United Technologies, appaltatrice del dipartimento della difesa

In questa America oltre lo specchio, lo show di Trump per gli 800 operai dell’Indiana ha fatto più notizia dei 17.8000 impieghi aggiunti nell’ultimo rapporto del ministero del lavoro che hanno portato la disoccupazione al 4,6%. I dati hanno sottolineato l’ennesimo paradosso «post-fattuale» di era trumpista: mentre Trump prometteva di «vietare la globalizzazione», gli economisti , compresi il suo neo-nominato pozzetto targato Goldman Sachs, si preoccupano per una disoccupazione troppo bassa, che rischia di far salire il costo del lavoro e nuocere alle corporation.
Mnuchin e Ross – i finazieri miliardari messi da Trump al Commercio ed al Tesoro, in realtà si adoperano per smantellare la ripresa di Obama che (con tutte le legittime critiche alle politiche neoliberiste) ha riportato l’economia a livelli pre-crisi subprime che ha schiantato economie e sovranità e imposto l’austerità su mezzo mondo.

L’ATTENZIONE DEL PUBBLICO è distratta ad arte dallo spettacolo pirotecnico di Trump. Nel comizio i due slogan che hanno dominato l’applausometro sono stati quelli riservati alla «stampa disonesta» (con invito a fischiare i giornalisti presenti) e il «costruisci il muro!» che funziona a colpo sicuro per scatenare i cori da stadio.

La decantata «barriera del sud» ha la stessa funzione del ponte sullo stretto di Messina e, al di la della demagogia isolazionista, le stesse probabilità di venire realizzata.

Sono proseguite le decisioni operative. L’ultima nomina in ordine di tempo è quella del generale dei marines James Mattis a segreatrio della difesa. «Mad Dog Mattis» ha fama di essere coriaceo comandante uso a condurre le operazioni militari con tenacia da cane rabbioso e Trump lo ha presentato come il «George Patton per i nostri tempi».

Noto per la diffidenza verso «l’islam politico» e la particolare avversione al regime di Tehran che considera principale minaccia agli interessi americani, Mattis è famoso per aver istruito i marines al suo comando di essere sempre «cortesi e professionali ma aver allo stesso tempo un piano per uccidere tutti quelli che incontrate».  Dopo il conflitto di interesse di Trump, la nomina di Mattis promette di sollevare un  altra questione costituzionale.

Per garantire la separazione dei poteri cvili e militari, la legge prevede che un ex militare debba essere in pensione da almeno sette anni prima di assumere il commando del ministero della difesa. Mattis è in pensione da solo tre anni, ragion per cui la sua conferma richiederebbe una deroga speciale approvata dal congresso.