Eh, no! Che si legga la vittoria di Donald Trump nei termini leniniani, come ha fatto Leonardo Paggi sul Manifesto di ieri, mi pare non solo un errore storico e uno svarione politico, ma persino un oltraggio. Giù le mani dal 1917!, mi vien fatto di urlare. E non mi risento in modo peculiare avendo appena pubblicato un libro dedicato al 1917; mi incupisco davanti a una simile interpretazione proprio perché proviene da una delle menti più acute della sinistra intellettuale italiana, che mi fa temere per il futuro della sinistra stessa, che, in effetti, non se la passa tanto bene.

È certo condivisibile il punto di partenza dell’articolo di Paggi che denuncia gravissime manchevolezze ed errori catastrofici della «sinistra perbene» (ma vorrei aggiungere anche di larga parte di quella «permale», confusa e spesso autoreferenziale), così come condivido le critiche a Obama. E sarei ancora più aspro nel giudizio su Hillary Clinton, della cui sconfitta non ci si può che rallegrare; il che non ci deve portare a fare del suo avversario il nostro eroe, il cavaliere libero e selvaggio che si incarica di portare al vertice del potere Usa le voci del popolo in catene, di far risuonare nel mondo le immortali parole dei bolscevichi vittoriosi: «Pane e pace». Trump rappresenta una destra che sconfigge un’altra destra: questo è chiaro, ma che la destra del tycoon americano sia in grado di esprimere il disagio sociale di ceti non rappresentati, sconfitti dalla gestione oligarchica della crisi finanziaria, e che si debba apprendere da questa linea i rudimenti di una nuova sinistra mi pare pensiero bislacco.

Paggi parla di «coraggio e creatività politica»: a me pare che il messaggio di Trump sia una miscela pericolosa, e insieme banale di luoghi comuni della destra peggiore, che, nondimeno, ha, per noi europei e specie per noi italiani, il vantaggio di aprire un qualche ritorno all’isolazionismo di Washington, che è ciò che i commentatori mainstream, politici e giornalistici, in questi giorni paventano e che invece deve farci rallegrare. Così come ci deve rallegrare l’apertura alla Russia (e alle sanzioni per la Crimea), l’accenno alla Nato, e alla riduzione delle spese militari. Sotto questi aspetti, Trump ci dà speranze che la signora Clinton non ci dava, con la sua dichiarata predisposizione a rilanciare la linea della «esportazione della democrazia», i cui nefasti effetti sono il nostro tragico presente. Ma non possiamo neppure dimenticare le dichiarazioni su Gerusalemme, che il neopresidente vorrebbe dare in esclusiva agli ebrei, violando storia, geografia, cultura e buon senso; né le inquietanti allusione sull’Iran, che danno adito al timore che si voglia riaprire un contenzioso la cui chiusura è di fondamentale importanza. Né inquieta meno l’intenzione dichiarata di «rivedere» gli accordi, pur minimalisti, sulla riduzione del danno ambientale, di cui gli Stati Uniti sono i grandi protagonisti mondiali, seguiti a ruota dalla Cina.

Per non parlare del programma di pulizia razziale che è nell’hardcore della agenda politica Trump, e del suo conclamato progetto di quell’America «forte» che solo a sentirlo vagheggiare fa venire i brividi, se la si vede nei termini di una nuova feroce supremazia Wasp, che espelle i latinos e tiene «al loro posto» i neri, magari ritornando a chiamarli negri, in odio alla political correctness, di cui tanto gioiscono Libero e Il Giornale, Salvini e Meloni. E, su questa scia, arrivare a dichiarare, come Paggi fa, che bisogna smetterla di «bollare di razzismo ogni protesta contro una situazione caratterizzata da crescente immigrazione e crescente disoccupazione», lascia sgomenti.

Dunque, siamo all’«io non sono razzista, ma…»? Il problema, naturalmente, non è costituito tanto e solo dai bravi cittadini e cittadine delle numerose Gorino d’Italia, ma dal fatto che tante di queste proteste sono un fatto politico, politicamente caratterizzate e come tali utilizzate. Difendere gli interessi locali e nazionali, come Paggi invita a fare, incuranti del tessuto sociale di cui tali interessi sono espressione, e ignorando i più larghi e generali contesti geografici e sociali in cui essi si collocano, mi pare un programma perfetto proprio per la Lega Nord 2017, non per una «nuova sinistra», a meno che si voglia perseguire davvero una sinistra «coraggiosamente trumpista».