La morte di Fidel Castro continua a riverberare negli Stati uniti, il paese che più di ogni altro, a parte la stessa Cuba, ha assorbito storicamente e simbolicamente la notizia della scomparsa del leader cubano.

In gran parte la morte di Fidel ha avuto un effetto nefasto. Oltre ogni valutazione, su questa sponda dello stretto della Florida, il principale retaggio di Castro rimane per molti versi la resistenza e l’implicito smacco all’impero che per 60 anni – e 10 presidenti – ha tentato senza successo di eliminarlo. I necrologi si sono colorati di un rigurgito guerrafreddista che Obama aveva tentato per prima volta di superare con l’apertura, nel nome di una nuovo capitolo nei rapporti bilaterali. Soprattutto in questo paradossale momento di «doppia» presidenza in cui la base politica esige che Trump si smarchi dalle politiche obamiane, la scomparsa di Fidel impedisce in pratica a Cuba di passare in secondo piano, mentre le prossime fasi delle relazioni Usa-Cuba promettono di essere plasmate dal riflesso «reattivo» di un calcificato e disfunzionale rapporto.

In condizioni «normali» è virtualmente certo che un affarista post-ideologico come Trump non avrebbe avuto nessun incentivo a riattualizzare lo scontro con L’Avana. Semmai la détente commerciale nei Caraibi sembrerebbe del tutto compatibile con l’idea di risorgimento capitalista vagamente articolata dal neo eletto. «La comunità imprenditoriale preferirebbe che non cambiasse nulla», ha dichiarato di John Kavulich del Us-Cuba Trade Council, che rappresenta gli interessi commerciali attivati dal disgelo di Obama. A marzo col presidente Usa aveva visitato L’Avana una delegazione di imprenditori americani compreso Alfonso Fanjul, erede della dinastia cubano-americana della canna da zucchero, il presidente di Air BnB.

Le speranze dei businessmen sembrerebbero essere state bruscamente disattese dal laconico tweet diramato ieri da Trump: «Se Cuba non intende scendere a patti col popolo cubano, con gli esuli cubano-americani e con gli Stati uniti, annullerò l’accordo». In realtà l’embargo come tale non è mai stato rimosso da Obama, che non ne aveva facoltà, né verrà presumibilmente abrogato dal prossimo Congresso solidamente repubblicano. Il pronunciamento di Trump rammenta i vani anatemi scagliati verso l’isola da presidenti come Nixon, Reagan e Bush e dà la misura della tensione fra destra storica del Gop e le pulsioni Alt-right nella embrionale amministrazione Trump.

In precedenza sulla questione cubana si erano espressi principalmente due gregari: la stratega neocon Kelyanne Conway e il capo di gabinetto Reince Priebus. Quest’ultimo, già segretario del partito repubblicano, aveva anticipato che «se Cuba vorrà continuare a beneficiare della magnanimità americana dovrà dare molto in cambio». Un ricatto che garantirebbe una nuova stasi gelando gli scambi commerciali già attuati, soprattutto nel comparto turistico: voli, crociere, traghetti dalla Florida.

Le rassicurazioni preventive di Priebus e Conway erano probabilmente mirate a serrare i ranghi nella coalizione di destre confederate da Trump. Soprattutto alla luce del malumore che serpeggia nella base per i colloqui col moderato «never Trump» Mitt Romney per una possibile poltrona agli Esteri. Secondo indiscrezioni trapelate dalla corte della Trump Tower le esternazioni «non autorizzate» avrebbero assai irritato il loro capo. La faccenda ha sottolineato altresì la paradossale situazione in cui le indicazioni politiche pervengono 140 caratteri alla volta e alla stampa non rimane che l’esegesi del twitter presidenziale.

È il caso anche dell’altro principale fronte polemico che in questi giorni impegna Trump: quello del riconteggio dei voti. La procedura di recount, richiesta dalla verde Jill Stein, è avviata in Wisconsin, dove Trump ha vinto il collegio elettorale per 27.000 voti. A breve seguiranno Pennsylvania e Michigan (in quest’ultimo sono meno di 10.000 i voti che separano Hillary da Trump). Dopo una pausa di silenzio stampa, nel fine settimana Trump si è attaccato a twitter con una serie di messaggi progressivamente più petulanti e stizziti, culminati nell’improbabile rivendicazione di una vittoria «anche nel voto popolare se si sottraggono i milioni di voti illegali». Il neo presidente attribuirebbe insomma la sconfitta per oltre 2 milioni nel suffragio universale a un broglio senza precedenti in cui si sarebbero presumibilmente recati alle urne per Hillary tre milioni di clandestini. È una tesi complottista rilevata dalle trasmissioni radiofoniche della frangia estrema che oltretutto contraddice la precedente posizione per cui le elezioni sarebbero state «regolari ed inconfutabili».

Ultima paradossale manifestazione della logica in cui affermare tutto ed il contrario di tutto è strumentale al sistematico offuscamento. Dopo una campagna post-verità il presidente eletto Trump si conferma maestro della post-politica in cui è fondamentale l’uso strategico della bufala. Una tecnica postmoderna che ha però radici nel maccartistmo classico, quello traghettato a Trump Tower da Roy Cohn, braccio destro di Joe McCarthy e in seguito e mentore del giovane Donald.