Nella giornata della memoria, il senatore democratico Cory Booker ricorda con un tweet l’America di Franklyn Delano Roosevelt, l’America che oppose un rifiuto alla richiesta della famiglia di Anna Frank di trovare rifugio negli Usa.

E fu lui, FDR, un democratico, un presidente considerato un grande presidente, a decidere l’internamento dei cittadini americani di origine giapponese durante la II guerra mondiale. Altri tempi, lontani, che nessuno mai avrebbe mai pensato di rivivere in America. La giornata della memoria è celebrata proprio per non dimenticare e per capire che, invece, quei tempi possono tornare. Sarà un caso, ma proprio quella è la giornata scelta da Donald Trump per firmare un decreto che sospende per tre mesi l’ingresso negli Usa di cittadini da sette paesi musulmani: (Siria, Libia, Iran, Iraq, Somalia, Sudan e Yemen, ma non Arabia Saudita, Egitto, Emirati e Libano, i paesi di provenienza dei terroristi dell’11 settembre come nota il NYT, ovvero i paesi legati ai suoi affari, come osserva il NY Daily News).

Booker, un politico di spicco della comunità africano americana spesso accostato a Barack Obama, anche come suo possibile erede, è, con Bill de Blasio, il sindaco di New York, e altri democrat, alla testa di un fronte che sta reagendo con decisione alla misura annunciata dal nuovo presidente. E non ci sarebbe da sorprendersi se lo stesso Barack Obama decidesse di uscire allo scoperto contro il suo successore. Almeno con un tweet per i suoi 83.6 milioni di follower. Lasciando la Casa Bianca era stato molto chiaro nel dire che non sarebbe stato zitto se fossero stati messi in discussione i valori fondanti della democrazia americana e della sua natura di paese d’immigrati.

Dunque, ecco ergersi un secondo “muro”, anti islamico, dopo quello fisico, anti ispanico, annunciato nei giorni scorsi, che sigillerà la frontiera con il Messico. In una settimana Donald Trump ha preso una serie di decisioni in linea con quanto promesso in campagna elettorale, e tra queste non potevano mancare quelle più “facili”, o solo apparentemente tali. Quelle che hanno risonanza dove devono averla, e che, nell’immediato, non hanno costi economici. Anche se i costi politici, per non dire delle crudeli conseguenze umane e sociali, sono già elevatissimi.

Sono annunci evidentemente rivolti allo zoccolo duro del suo elettorato, con l’intento di conservare nei loro confronti una permanente relazione demagogica che dia sostegno attivo alla sua presidenza. Il populismo di Trump implica una costante mobilitazione militante al suo fianco. Nessun tentativo di unire il paese, anzi un’aperta e continua sfida all’America che non l’ha votato e che lo considera un presidente perfino illegittimo. È l’America che, nell’immaginario paranoide del nuovo presidente, trova eco nella stampa, quei media soprattutto liberal che già dal primo giorno nella Casa Bianca sceglie come nemico numero uno, ben assistito da due cani d’attacco, l’addetto stampa Sean Spicer e la consigliera Kellyanne Conway, l’ideatrice degli “alternative facts”.

Ma i primi giorni alla Casa Bianca mostrano anche un altro volto di The Donald. Il presidente che, come primo atto, riceve i leader del sindacato. Poi i capi dei colossi dell’auto. E che straccia i trattati di libero scambio, alza barriere tariffarie, con promesse di riduzione drastica delle tasse agli imprenditori che investiranno nel made in Usa. In Trump la “vodoo economics”, l’economia degli stregoni come George Bush padre definì la reaganomics, basata sul presunto circolo virtuoso degli sgravi fiscali, si sposa con un dichiarato protezionismo. Una combinazione che non sta in piedi ma che sembra piacere sia a Wall Street sia ai sindacati.

Se poi la “fortezza” America dell’autarchico Trump si ritrae anche come guardiano del mondo (confermato il blocco del programma F-35), apre alla Russia di Putin e promette di fare amicizia con tutti, tranne gli islamici con cui non è in affari, ecco che il patchwork di idee e improvvisazioni – non avendo nulla di una dottrina coesa – ha la forza di sparigliare e spiazzare. Non sappiamo se il suo decisionismo terrà il ritmo forsennato dei primi giorni, ma è evidente che questa velocità è parte della “linea politica” di Trump. Essendo tesa a conservare e consolidare la base, con operazioni dichiaratamente di destra estrema, a rafforzare i legami con essa, allargando nel frattempo il fronte a lui favorevole con iniziative economiche reaganiane e insieme keynesiane che piacciano anche a sinistra.

C’è in Trump un evidente, continuo contraddirsi “ideologicamente”, che ha spiazzato perfino Theresa May (per esempio con il suo sostegno alla tortura), un contraddirsi che gestisce abilmente anche con astuti quanto clamorosi distinguo (sulla tortura ha poi detto che si rimetterà alla decisioni di Mad Dog Mattis, il nuovo capo del Pentagono che non la considera necessaria, bontà sua), un “movimentismo” decisionista e retorico che, tra l’altro, ha il potere di ipnotizzare i media, anche quelli che lo criticano e che sembrano continuamente in affanno rispetto alla sua ultima mossa.

Anche i suoi interlocutori hanno già sperimentato questo stile a dir poco inconsueto per il capo della prima potenza del mondo. Ne sa qualcosa lo stesso presidente del Messico Enrique Peña Nieto, prima apertamente umiliato con la storia del muro e del suo finanziamento a carico dei messicani, e poi – a dire di Trump – consultato telefonicamente con grande amicizia. Anche May ha provato l’umoralità di Trump. E vedremo cosa diranno i cinque capi di stato e di governo che il nuovo presidente avrebbe chiamato al telefono ieri (Vladimir Putin, innanzitutto, Angela Merkel, Shinzo Abe, François Hollande e Malcolm Turnbull).

I media ricamano su una sinistra che trova in certe posizioni di Trump una possibile assonanza. Una versione decaffeinata, “Trump lite”, del trumpismo.

Personaggi come Jeremy Corbyn, Bernie Sanders e Benoît Hamon sembrano ripetere un mantra simile a quello di Trump sul lato dell’anti-globalizzazione e della lotta alla delocalizzazione. In realtà c’è una differenza sostanziale, ha scherzato Corbyn, “a cominciare dai capelli, i miei sono proprio i miei”. E non è poco.