«Ora, mi dici che il mondo è cambiato. Ora che ti ho reso tanto ricco da dimenticare il mio nome» (da Youngstown sull’album The Ghost of Tom Joad).

Era il 1995 quando Bruce Springsteen scriveva questi versi dando voce all’operaio di Youngstown, Ohio, rimasto senza lavoro a causa della globalizzazione e della delocalizzazione delle fabbriche della «Rust Belt», l’ex cuore pulsante dell’industria pesante statunitense. Quell’industria grazie alla quale «l’America ha vinto le sue guerre» ma che già negli ultimi decenni del secolo scorso non resse la concorrenza delle importazioni dai paesi in via di sviluppo: «…hanno fatto quello che non è riuscito a Hitler», diceva ancora il working class hero immaginato da Springsteen.

Da allora alcune aree sono state riconvertite con successo, ma anche nei primi dieci anni del nuovo millennio quel territorio ha continuato a spopolarsi con percentuali negative che vanno dal 14% di Cleveland al 25% di Detroit.

Con la crisi finanziaria del 2008 è il ceto medio ad affondare e il Boss, nel suo disco del 2012 Wrecking Ball, cantava di questi nuovi poveri rimasti senza impiego e spesso senza casa. Sono i protagonisti di canzoni come Jack of All Trades, un disoccupato che si offre per qualsiasi lavoro, da tagliare l’erba del giardino a rifare il tetto di casa, mentre «il banchiere s’ingrassa e il lavoratore muore di fame».

Una rabbia che si esprime ancora più chiaramente nell’invettiva di Death to My Hometown: «Hanno distrutto le nostre famiglie, le fabbriche, si sono presi le nostre case, hanno lasciato che gli avvoltoi ci spolpassero fino all’osso»; e ancora: «Avidi ladri che hanno divorato tutto, i cui crimini sono rimasti impuniti e camminano per strada come uomini liberi, ma hanno portato morte nelle nostre città». Questa era la voce «dell’altra America», come spesso superficialmente si dice in Europa. L’America dei diseredati, degli operai e delle minoranze. Oggi scopriamo, con grande scorno dello stesso autore di quei versi, che l’America che Bruce ha pensato di rappresentare «da sinistra», ha votato in massa per Donald Trump.

Il neo presidente si è preso il Wisconsin (l’ultima volta ci era riuscito Reagan nel 1984, al massimo della sua popolarità), ha vinto per un’incollatura in Michigan (che non votava repubblicano dal 1988 e che Obama conquistò con facilità sia nel 2008 che nel 2012) e anche in Ohio, swing state per eccellenza che aveva scelto i democratici nelle ultime due elezioni. E aldilà della «Rust Belt», il candidato repubblicano ha convinto in tutta l’America proprio quella massa di lavoratori (bianchi ma non solo) che negli ultimi anni ha vissuto un progressivo impoverimento, l’impossibilità di trovare un impiego dignitoso, costretta a raddoppiare gli sforzi per fronteggiare le spese sanitarie – malgrado l’Obamacare – o quelle per l’educazione dei propri figli.

Partire dalle canzoni di Springsteen è utile per cercare di interpretare, possibilmente senza demonizzarlo, questo elettorato che se vota Obama viene ritenuto maturo e consapevole ma se sceglie Trump è bigotto e razzista. Perché se è vero, persino banale, dire che Bruce è l’ultimo discendente della tradizione che da Woody Guthrie passa per Dylan, è altrettanto vero che oggi gli artisti impegnati o presunti tali, preferiscono altri temi alla condizione della working class e del ceto medio impoverito. E chissà se l’elezione di Trump farà venire voglia a Springsteen di scrivere altre canzoni politiche o vista la delusione cocente confermerà l’intenzione di voler pubblicare un disco ispirato alle grandi orchestrazioni pop di Jimmy Webb. Di sicuro dovrà assorbire lo choc, visto che in diverse interviste aveva definito il magnate un «tossico narcisista» e si era detto certo che sarebbe stato sconfitto.

È persino giusto chiedersi se ha ancora un senso raccontare un mondo che forse come comunità ha smesso di esistere. L’essenza del successo e del valore dell’opera di Springsteen sta nel legame con il suo pubblico, con un popolo e i suoi valori. Anche nei suoi lavori più intimi Bruce, al contrario di Dylan, cerca una conversazione; la sua ambizione è sempre stata quella di rappresentare più della sua sola voce.

Se oggi tutto questo è reso impossibile da una società divisa, spaventata ed egoista, forse è il momento di indagare solo su se stessi. E in un certo senso è quello che ha fatto con la sua autobiografia.

Anni luce sono passati da quando uno Springsteen bambino chiedeva a sua madre se in famiglia fossero democratici o repubblicani: «Siamo democratici perché i democratici stanno con i lavoratori», fu la risposta di mamma Adele.

Oggi, le elezioni che avrebbero potuto distruggere il partito repubblicano, e che Hillary Clinton avrebbe dovuto vincere a valanga, hanno invece messo in luce la trasformazione epocale dei democratici, incapaci di parlare alla pancia e al cuore di quello che un tempo era lo zoccolo duro del loro elettorato, un mondo formato da uomini come il personaggio di Martin Sheen in Wall Street, il film di Oliver Stone dell’87: un operaio e leader sindacale che cerca di impedire al suo giovane e rampante figlio, protégé dello spregiudicato finanziere Gordon Gekko, di smembrare e distruggere la compagnia aerea per la quale lavora per ricavarne milioni di dollari a spese dei lavoratori. Un dinosauro agli occhi del figlio e dei fan della finanza creativa, allora agli albori.

Oggi sono Hillary Clinton, suo marito Bill e il loro entourage, ad essere visti come dei Gordon Gekko. Per l’elettore della middle e della working class, sono complici delle grandi multinazionali, delle banche che hanno portato via le loro case; combattono a parole il terrorismo ma fanno lucrosi affari con Arabia Saudita e Qatar, aprono la strada a migranti che abbassano i salari e fanno perdere lavoro.

Giusta o sbagliata che sia, la percezione comune è che abbiano dimenticato il loro elettorato storico e non sarà certo una canzone a convincerli del contrario. La traduzione nella vita reale dei versi di Youngstown o di We Take Care of Our Own (dall’album Wrecking Ball), non diventa lotta di classe, ma si fa risentimento nei confronti di quell’establishment che non avrebbe fatto nulla per cambiare la situazione, che sembra impegnarsi solo per i diritti «dell’altro», un «altro» che viene vissuto come una minaccia.

Con l’eccezione di Springsteen e di pochi altri, l’impegno sociale nell’arte e nel mondo dello spettacolo, sembra focalizzarsi su temi sacrosanti come ambiente, diritti gay, immigrazione (quando non diventa volgare e squallido veicolo di autopromozione come nel caso dell’endorsement di Madonna) ma che inevitabilmente non interessano la vita quotidiana di chi pensa di non poter dare un futuro a se stesso e alla propria famiglia.

Negli Usa come in Europa, la questione dei migranti (spesso ridotta a un derby tra «alziamo i muri» e «accogliamoli tutti») è purtroppo centrale nella perdita di consenso dei partiti di sinistra.

I commoventi ritratti di messicani clandestini raccontati da Springsteen in canzoni come Sinaloa Cowboys, Across the Border o Matamoros Banks, servono a poco.

E così, come anni fa Sesto San Giovanni, l’ex Stalingrado d’Italia, tradì la sua storica fede comunista per votare Silvio Berlusconi, oggi il nuovo povero bianco americano sceglie un controverso milionario per dare voce alla propria paura scambiandola per speranza, nonostante «mi dici che il mondo è cambiato» e nonostante «ti ho reso tanto ricco da dimenticare il mio nome».