La battaglia strada per strada, casa per casa di Mosul è sempre più vicina. Unità speciali delle forze armate irachene lunedì notte sono entrate prima a Gojali e poi a Karama, sobborghi della “capitale” dello Stato islamico in Iraq, spingendosi all’interno per circa 5 chilometri. È solo una prima incursione ma per l’esercito di Baghdad aver rimesso piede a Mosul ha un alto valore simbolico. La vittoria però resta lontana e la riconquista della città potrebbe trasformarsi un enorme bagno di sangue, di cui i civili sarebbero le prime vittime. I combattenti del Califfato, tenendo fede alla loro fama, usano i civili come scudi umani e si abbandonano ad esecuzioni sommarie e a punizioni esemplari di fronte alla prospettiva sempre più concreta di perdere Mosul. Ma fanno strage di civili anche i raid aerei della Coalizione a guida Usa. Nei giorni scorsi, ha rivelato ieri il giornale britannico Guardian, otto membri di una stessa famiglia, tre dei quali bambini, sono stati uccisi da un attacco aereo americano sulla loro casa nel villaggio di Fadhiliya, pochi chilometri fuori Mosul. Proprio ieri il colonnello Usa John C. Dorian ha comunicato che i cacciabombardieri della Coalizione hanno sganciato 3.000 bombe su Mosul. I morti innocenti di Fadhiliya vanno ad aggiungersi ai 1.120 civili rimasti uccisi ad ottobre (assieme a 672 membri delle forze armate, della polizia, dei peshmerga curdi e ai miliziani sciiti alleati del governo).

Inutile farsi illusioni. I combattimenti per la liberazione di Mosul potrebbero durare settimane, forse mesi, con l’esercito costretto ad avanzare a passo lento per sfuggire a imboscate, strade minate, attacchi kamikaze dello Stato islamico nell’ultima strenua difesa della città. L’incursione a Gojali e Karama, dove le unità scelte avrebbero preso il controllo di un ampio edificio usato dalla televisione di stato irachena, è significativa ma il grosso delle truppe irachene partite da Qayyara, è fermo a una decina di chilometri dalla città. Il comandante delle forze speciali irachene, il generale Sami al Aridi, ribadisce che riprendere Mosul non sarà una passeggiata. Si stima che ci siano circa 5000 militanti dello Stato islamico, mille dei quali stranieri, all’interno della città e almeno altri 2000 nella sua cintura difensiva esterna, pronti a sacrificarsi. I soldati governativi e i miliziani curdi, sciiti e sunniti alleati sono oltre 40mila. Questa superiorità numerica potrebbe non bastare a garantire una vittoria rapida. Gli uomini del Califfato nel frattempo provano, con video postati in rete, a dimostrare che a Mosul la vita scorre come sempre e che i successi delle truppe di Baghdad sarebbero falsi.

Più tempo occorrerà all’esercito iracheno per avere ragione dei jihadisti, più si complicherà il quadro di Mosul e del nord dell’Iraq, con vari attori cercheranno di ritagliarsi uno spazio sulla scena. A cominciare dalla Turchia che sta inviando soldati, mezzi corazzati e pezzi di artiglieria alla città di confine di Silopi ed è pronta ad intervenire in qualsiasi momento nella battaglia per Mosul. Lo ha indirettamente confermato il ministro della difesa Fikri Isik. Ankara già mantiene a Bashiqa, 35 km da Mosul, un suo presidio militare incurante delle proteste di Baghdad. Qui ha addestrato i 1.500 miliziani sunniti delle Forze di mobilitazione nazionale (Hashid al Watani), arruolati da Athil al Nujaifi, l’ex governatore della provincia di Ninive, che combattono assieme all’esercito governativo. Il leader turco Erdogan userà come pretesto per il via libera all’intervento a Mosul del suo esercito la protezione dei civili sunniti da possibili aggressioni delle milizie sciite delle Unità di mobilitazione popolare (Hashid al Shaabi) che avanzano verso Mosul dalla regione di Tal Afar. Erdogan vuole sedersi al tavolo del futuro dell’Iraq e tenere sotto controllo le ambizioni dei curdi – nonostante i buoni rapporti che mantiene con il governo autonomo del Kurdistan iracheno – lanciando una offensiva simile a “Scudo dell’Eufrate” nel nord della Siria cominciata lo scorso 24 agosto. Ieri il generale Hulusi Akar, capo di stato maggiore turco, è volato a Mosca per coordinare le mosse politiche e militari con i russi.

In Siria intanto infuria la battaglia ad Aleppo ovest innescata dall’offensiva di Jaish al Fatah, la coalizione di forze jihadiste e qaediste anti Bashar Assad, per rompere l’accerchiamento governativo della zona est della città. Ieri il presidente siriano ha detto di aspettarsi «di rimanere in carica fino al 2021, quando scadrà il mio terzo mandato» . Assad esclude cambiamenti politici fino a quando le sue forze armate non vinceranno la guerra e sostiene che il tessuto sociale del suo Paese era «molto meglio prima della guerra».