Anche Nostro Signore è deluso dal giovane Tsipras. Non dalla maniera in cui il ministro delle finanze Varoufakis gestisce oggi le trattative con i partners europei. Egli – che notoriamente è onnisciente – naturalmente lo sapeva da sempre che sarebbe andata finire male. E per questo si è messo a manifestare la sua pena già all’indomani della vittoria elettorale di Syriza, attraverso un Crocifisso ligneo che dal 26 gennaio piange a dirotto lacrime amare in una sperduta parrocchia di Corinto.

Ma se il parrocco, sicuro elettore di destra, ha tutti i motivi per protestare contro il governo capeggiato da un ateo dichiarato, è molto più difficile capire e interpretare le contestazioni che emergono in queste ore difficili, non tanto impetuosamente a dire il vero, all’interno di Syriza.

La comprensione è ancora più difficile se si vedono i fatti nudi e crudi. Ieri il ministro Varoufakis ha consegnato prima alla troika (pardon, alle istituzioni) e poi all’eurogruppo il programma di riforme richiesto. Il testo è stato pubblicato. E non è un’esagerazione dire che riflette in gran parte il programma preelettorale di Syriza, specialmente la parte degli interventi contro quella che Tsipras chiama «catastrofe umanitaria»: aiutare le 400 mila famiglie senza alcun reddito, sostenere i disoccupati, riassumere gli statali licenziati illegalmente, perfino aumentare il minimo salariale da 450 a 750 euro. Cosa più importante, il documento di Varoufakis delinea molto chiaramente la linea di scontro con gli oligarchi greci, quando prefigura un’accesa lotta contro le aree di «immunità fiscale», quando propone un concorso pubblico per le frequenze televisive, con il risanamento e un controllo strettissimo dei crediti bancari verso mezzi d’informazione e partiti.

Per chi non conosce la realtà greca, si tratta di smantellare quell’intreccio tra mezzi d’informazione, banche e politica che ha regnato fino al 25 gennaio.

Basta un raffronto anche superficiale con l’email (incredibilmente, per ben quattro anni la Grecia è stata governata via email) che l’allora troika aveva mandato all’ex ministro delle finanze Ghikas Hardouvelis a inizi dicembre per capire che siamo su un altro pianeta. Quella email esigeva ulteriori tagli a pensioni e stipendi pubblici e l’abolizione di ogni diritto sindacale sul luogo di lavoro, mentre le aste giudiziarie per la prima casa erano già cominciate con l’inizio dell’anno. Dove sono finite ora tutte queste misure? Dimenticate, svanite, evaporate.

Mentre ieri si attendevano nuovi e ancora più duri negoziati all’eurogruppo, a sorpresa, il documento di Varoufakis, che non conteneva neanche una cifra di previsione di incasso, è stato festosamente accolto dalla ex troika e dall’eurogruppo, con un’unica riserva: una moratoria di quattro mesi per tutte le misure che prevedono esborsi pubblici.

Eppure, di fronte a questa strategia negoziale che riesce a dare risultati concreti, una parte del partito di governo reagisce con brontolii, lamentele, anche con dichiarazioni dure, come quella del rispettato eroe della resistenza Manolis Glezos. Il fantasma evocato è quello del «cambio di marcia», di «abbandono degli impegni prelettorali». Come se il «tradimento» degli elettori di Tsipras fosse una tragica fatalità, un destino inevitabile, una nemesis della storia.

Già, la storia: ecco il vero colpevole. Come in un film già visto, una parte dell’opposizione interna di Syriza (e forse anche dell’elettorato) vedono nel governo Tsipras una riedizione di un’esperienza precedente, di un fallimento che ancora grava sulle spalle della sinistra ellenica: quella del primo premier socialista Andreas Papandreou. Il fondatore del Pasok ha conquistato il governo con un voto plebiscitario nell’ottobre del 1981, promettendo l’uscita del paese dalla Nato e dalla Comunità europea. Invece, non solo ci rimase ma permise anche la degenerazione del Pasok da movimento autenticamente popolare a banda di saccheggiatori delle casse pubbliche. Una delusione che è diventata rabbia e disperazione con lo scoppio dell’inevitabile crisi economica e la fuga in massa degli elettori dal Pasok verso Syriza.

Ma Alexis non è Andreas. E’ vero, durante la campagna elettorale ha esagerato un po’ in promesse: far tornare lo stipendio minimo a 750 euro (come i famosi 80 euro di Renzi) non è un mezzo per favorire la crescita, è o dovrebbe essere, il risultato della crescita. Bisognava rimanere coerenti e promettere solo quello che si poteva mantenere: la fine dell’austerità e la permanenza nell’eurozona. Esattamente quello che sta facendo adesso, non senza fatica.

Come scacciare quindi la maledizione di Andreas dal governo della sinistra greca? Andreas era un leader carismatico, gli bastava un’occhiata o un gesto per comunicare con la folla. Alexis è un politico capace e realista ma deve faticare di più ottenere consenso verso la sua complessa strategia: incalzare passo dopo passo i potentati finanziari europei, guadagnando sempre maggiori margini di autonomia e di libertà. L’opinione pubblica greca sembra comprendere e apprezzare. E’ ora che il governo si chiarisca anche dentro il partito di maggioranza e conduca i vari capicorrente verso un normale atterraggio dagli schemi ideologici alla tragica realtà della Grecia e dell’Europa. Non per accettarla ma per cambiarla.