Il diverbio sui trattati del libero commercio rischia di provocare la rottura fra Obama e numerosi esponenti del suo partito in vista di un voto del congresso su Ttip e Tpp.

Negli ultimi giorni Elizabeth Warren, critica di punta degli abusi di Wall Street, ha apertamente attaccato il presidente sui negoziati – attualmente alle battute finali – con l’Unione Europea e 12 nazioni asiatiche.

La senatrice democratica del Massachussets, che molta sinistra amerebbe vedere come candidata presidenziale progressista in alternativa a Hillary Clinton, ha denunciato in particolare la segretezza che ha avvoltole trattative, sfidando il presidente a rendere noti i dettagli dei trattati.

«Il governo non vuole che si sappia cosa si sta per firmare perché sa che la gente sarebbe contraria», ha intimato questa settimana la senatrice. Le procedure attorno alle trattative sono oltremodo restrittive: dal lato europeo il trattato di libero commercio transatlantico (Ttip) viene negoziato da Bruxelles senza il concorso diretto degli Stati membri che saranno limitati all’eventuale ratifica e sulla contrattazione è imposto il riserbo più severo.

Analogamente la Casa bianca non è tenuta a sottoporre la bozza ad un dibattito parlamentare. Il documento è disponibile per l’esame dei parlamentari che avranno tre di mesi di tempo per vagliarli prima del voto di ratifica ma non possono divulgarne i contenuti.

Nel caso di Ttip e l’omologo asiatico – il Tpp (Trans-Pacific partnership) – Obama ha inoltre chiesto un ulteriore fast track, una procedura abbreviata in cui l’esecutivo ha facoltà di negoziare liberamente e presentare all’approvazione rapida del parlamento, un testo non modificabile, un protocollo già usato in passato da predecessori come Reagan, Clinton e Bush ma che il congresso dovrà riautorizzare per Obama.

È su questa votazione prevista nei prossimi giorni che si sta cristallizzando l’opposizione. Venerdì Obama è intervenuto a sorpresa in una conference call dedicata alla stampa a cui partecipava il ministro del lavoro Thomas Perez per ribattere ulteriormente le critiche.

«Certe affermazioni sulla segretezza da parte di chi non avrebbe che da chiedere una copia della bozza sono strumentali» ha detto evidentemente contrariato il presidente.

La battuta era indirizzata alla ex alleata Warren ma non è solo lei a criticare gli accordi per l’ulteriore liberalizzazione del commercio che non sono visti di buon occhio da gran parte della sinistra. «I lavoratori americani che hanno perso i propri impieghi a causa di precedenti trattati sono comprensibilmente scettici» ha dichiarato a The Nation, Eric Hauser, portavoce della principale confederazione sindacale Afl-Cio.

«Il miglior modo per rassicurarci sarebbe di rendere noto il testo, non polemizzare con noi». Ulteriori sponde sono venute da Bernie Sanders, senatore socialista del Vermont, e anche lui possibile candidato presidenziale democratico, che ha fatto dell’opposizione agli accordi il tema centrale della propria piattaforma contro la diseguaglianza sociale.

Il suo collega dell’Ohio, Sherrod Brown, rappresentante di un distretto della «rust belt» deindustrializzata, si è detto «infuriato» dall’energia spesa dall’amministrazione per spingere un’iniziativa destinata a favorire l’industria invece di programmi sociali o l’aumento del minimo salariale.

Fra gli elementi trapelati che più preoccupano ci sono il potenziamento dei «diritti intellettuali» e dei brevetti (quelli sui farmaci ad esempio) e maggiori facoltà per l’industria di sottrarsi a norme ambientali, se necessario querelando stati sovrani.

Le Union vorrebbero inoltre che su eventuali firmatari emergenti come il Messico, Vietnam e Peru fossero imposte regole sindacali internazionali.

Mentre Hillary Clinton – che in questa fase di inizio campagna ha bisogno di motivare la base liberal – è stata attenta a non pronunciarsi, sui trattati Obama si trova allineato coi centristi e in particolare coi repubblicani pro-business, e paradossalmente sono proprio molti di quelli che fino a ieri hanno inveito contro «l’abuso di potere» dei negoziati con Tehran e l’Avana ad invocare ora il fast track chiesto dal presidente.

I suoi sostenitori insistono che i trattati unificherebbero procedure per un commercio pari al 70% dell’economia mondiale, ma nessuno è però in gradi di quantificare l’indeterminato vantaggio economico.

L’opposizione (compatta) dei sindacati si basa invece su precedenti come il Nafta che negli anni 90 siglò la cooperazione fra Canada Usa e Messico, coincidendo con una massiccia delocalizzazione, la crescita della disoccupazione americana e vantaggi economici concentrati ai piani alti delle corporation.

Robert Reich, economista progressista che pure da ministro del lavoro di Bill Clinton alla firma del Nafta aveva presieduto, avverte ora che ulteriori agevolazioni per le imprese devono essere subordinate a riforme volte a correggere l’insostenibile forbice sociale.

«L’idea che si possa cancellare la globalizzazione e diminuire il commercio è semplicemente sbagliata» ha ribattuto Obama. «Quel treno è già partito». Una conferma agli occhi di molti scettici, che i trattati serviranno semplicemente da infrastruttura su cui imbastire le prossime fasi di una globalizzazione liberista.

Più che quelle economiche, sembrano plausibili le motivazioni politiche, ovvero la necessità di tutelare una supremazia geopolitica americana. Non è casuale in questo senso l’assenza della Cina (e della Russia, del Brasile e dell’India) dalla lista degli interlocutori.

E a questo riguardo Obama non si stanca di ripetere: «Se non saranno direttive americane a disciplinare il futuro del commercio, allora saranno regole cinesi».

Dalla United Fruit però, alla Halliburton, la via americana all’egemonia è sempre passata dalla connivenza politica con le multinazionali; si tratta di precedenti che sembrerebbero giustificare quantomeno i timori di un futuro scritto ancora una volta più in funzione dei mercati, anziché delle persone.