Patate contro il Tpp. Il deputato cileno Giorgio Jackson, ex leader degli studenti (Revolución democratica), ha scelto di spiegare l’Accordo transpacifico di cooperazione economica e le ragioni per contrastarlo con un creativo video di circa tre minuti: in cui parlano le patate, accerchiate dai kiwi e controllate da nere melanzane armate. Il grande Accordo commerciale transpacifico – spiega la patata – è stato firmato il 4 febbraio in Nuova Zelanda da 12 paesi: Australia, Brunei, Canada, Cile, Stati uniti, Giappone, Malesia, Messico, Perù, Singapore e Vietnam. Un accordo storico, che riguarda 800 milioni di abitanti e si propone di gestire la più grande area di libero commercio del mondo: pari a circa il 40% del Prodotto interno lordo complessivo.

Perché diventi operativo, dev’essere ratificato, da qui a due anni, da almeno sei dei paesi firmatari iniziali che in totale devono rappresentare l’85% del Pil dell’area interessata. Da qui l’appello a mobilitarsi, rivolto a «tutti i tuberi del pianeta». Che cosa rappresenta il Tpp? Intanto, una grande vittoria degli Stati uniti, che lavorano al progetto dal 2008. In tutta segretezza. Solo poche patate – spiega il video – hanno avuto accesso ai documenti completi del Tpp, mentre le grandi multinazionali ne definivano i contorni a proprio vantaggio. Oggi si conoscono i veri interessi, le motivazioni e le conseguenze dell’Accordo grazie al sito Wikileaks e al lavoro di molte organizzazioni popolari.

Il Tpp contiene vari capitoli che attentano alle libertà individuali e collettive: dalla proprietà intellettuale all’accesso ai farmaci e alla libera fruizione del digitale. Lasciando mano libera alle grandi imprese multinazionali, il Tpp attenta anche alla sovranità nazionale: perché gli stati firmatari che non rispettano gli accordi presi possono essere denunciati ai tribunali internazionali. Un ricatto sufficiente per gli stati, che sarebbero ancor più motivati a difendere la ricchezza dei pochi piuttosto che il benessere dei settori popolari.

Nelle intenzioni degli Usa, il Tpp dovrebbe contrastare l’egemonia della Cina. Obama lo ha ribadito il 2 maggio sul Washington Post, vantando le meraviglie dell’accordo: che include anche l’abolizione di 18.000 tasse doganali per la vendita di prodotti Usa all’estero e una possibilità di crescita del Pil statunitense di 130.000 milioni di dollari all’anno. «La zona Asia-Pacifico continuerà la sua integrazione con o senza gli Stati uniti – ha scritto Obama – possiamo dirigere il processo o possiamo sederci a guardare il benessere altrui».
Obama ha ricordato che la Cina sta procedendo sulla via dell’Associazione regionale economica integrale, che include 15 paesi di Asia e Oceania. E intanto «le imprese statunitensi perdono accesso ai mercati asiatici, specialmente critici per i fabbricanti di automobili, per il settore primario o i piccoli commerci». Per il presidente Usa e per i fautori del libero mercato come metro di misura e di lavoro, il Tpp porterà invece occasioni di sviluppo, garantendo procedure più agili nella soluzione delle controversie fra stati, nel rispetto dei diritti e dell’ambiente.

Per le patate cilene, invece, il Tpp è una gabbia che potrebbe chiudere le porte all’intera America latina che ha scommesso su nuove relazioni solidali, basate sull’interscambio paritario e non sull’asimmetria. Dopo la sconfitta dell’Alca, l’Area di libero commercio per le Americhe voluto da George W. Bush, ottenuta dall’Alba (l’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America ideata da Cuba e Venezuela), il Tpp rilancia e punta molto più in alto. Mira a stabilire un’associazione strategica che vada oltre l’ambito commerciale, incorporando anche la sfera economica, finanziaria, scientifica, tecnologica e della cooperazione. E si propone di sottomettere al mercato neoliberista anche il settore dei beni e servizi.

Un modello di cifra superiore a quello realizzato nel 1994 tra Usa, Canada e Messico, il Nafta, che al momento della sua creazione ha riguardato la vita di 370 milioni di persone. Chi ne abbia pagato i costi è indicato dal fallimento del «narco-stato» messicano, paese di grandi profitti e di grandi disperazioni. Tanto che anche organismi internazionali come la Cepal, che prima sottoscrivevano il libero commercio senza esitazioni, oggi avanzano grosse riserve e affermano che questi trattati violano il diritto internazionale, ponendo i diritti commerciali al di sopra di quelli umani.
Anche se nel Tpp sono inizialmente coinvolti solo tre paesi latinoamericani, nel continente l’allarme dei movimenti e dei paesi che si richiamano al socialismo è alto. A fine gennaio 2016, a Città del Messico si è svolto un incontro internazionale delle Organizzazioni sociali in opposizione al Tpp per mettere a punto azioni comuni. Il Tpp è diventato l’acronimo di “Trattato Per Perdere”. La strategia del capitale globale, portata avanti soprattutto dagli Usa, mira a rompere il sistema istituzionale e formale dei negoziati commerciali (il Wto, dove – seppure all’insegna del neoliberismo – esiste uno spazio istituzionale perché ogni paese abbia un voto) per sostituirlo con negoziati bilaterali o multilaterali basati sull’asimmetria di poteri. Per questa via si è cercato di neutralizzare gli effetti dell’Alba, complice anche la nuova situazione favorevole al ritorno delle forze conservatrici nel continente.

Tutti i paesi che hanno uno sbocco sul Pacifico hanno realizzato Trattati di libero commercio (Tlc) con gli Usa e l’Europa. Nel Mercosur, solo Venezuela e Bolivia non hanno firmato Tlc con la Eu, e ora che in Argentina c’è Macri, la pressione è forte sul Brasile dove Rousseff è sotto attacco. Anche l’Ecuador ha firmato un Tlc con l’Europa. E già diversi paesi sono in coda per aderire al Tpp: dalla Colombia (uno dei perni dell’Alleanza del Pacifico insieme a Messico, Perù e Cile) al Costa Rica, al Guatemala e all’Uruguay, paesi osservatori nell’Alleanza del Pacifico. L’Uruguay del moderato Tabaré Vazquez ha già tentato di far passare il Tisa, l’accordo per la privatizzazione dei servizi che incrocia il Tpp.

Il diritto del capitale ad agire senza regole, freni e controlli, presuppone governi docili e strategie adeguate per addomesticarli. Da qui, le ingerenze, il discredito e i colpi di stato «istituzionali» per quelli che, come il Venezuela, non ci stanno.