«Qui viviamo tra l’incudine del jihad e il martello di una prossima dittatura». Così ci scriveva qualche giorno fa Patrizia Mancini, una collega che vive e lavora a Tunisi, raccontando con poche parole il clima che si è instaurato nel Paese dopo il sanguinoso attacco del 26 giugno al resort di Sousse, costato la vita a una quarantina di turisti. I timori di una svolta liberticida, autoritaria, nella Tunisia che a torto o a ragione veniva considerata l’unica realizzazione positiva delle rivolte popolari arabe del 2011, si sono materializzati ieri quando il presidente e comandante in capo delle Forze Armate, Beji Caid Essebsi, ha proclamato lo stato di emergenza su tutto il territorio nazionale. Era stato revocato il 6 marzo 2014 lo stato d’emergenza rimasto in vigore in Tunisia per oltre tre anni, dai giorni delle proteste contro il dittatore Zine El-Abidine Ben Ali. Ora sono stati ampliati i poteri dell’esercito e della polizia nelle operazioni contro individui sospetti ed organizzazioni ritenute militanti. Il diritto a manifestare in pubblico sarà ancora più limitato. Verrà ulteriormente accresciuto il presidio delle forze di sicurezza non solo intorno ai resort turistici e ai siti sensibili ma anche nelle città, nelle strade, nei quartieri “serbatoio del radicalismo”. Il rischio alle porte è che la “lotta al terrorismo” si trasformi presto in una politica repressiva verso tutte le forme di dissenso e opposizione, laiche o religiose.

 

«Abbiamo l’Isis alle porte», ha detto Essebsi alla televisione spiegando alla popolazione la decisione di proclamare lo stato di emergenza. «La Tunisia sta vivendo circostanze eccezionali che necessitano di misure eccezionali…Noi abbiamo creduto che l’attacco al museo del Bardo sarebbe stato l’ultimo. Lo Stato potrebbe crollare se dovesse subire un altro attentato come quello di Sousse. Adottare lo stato di emergenza è un mio dovere»

, ha aggiunto. Da parte sua il premier Habib Essid ha annunciato la nomina di un nuovo governatore a Sousse, Fethi Bdira. Oggi inoltre sarà completata la chiusura di tutte le 80 moschee considerate dalle autorità a “rischio radicalismo”, una misura che ha generato forti tensioni nel Paese ma che trova l’appoggio dietro le quinte del principale partito islamista Ennahda, che nei giorni scorsi aveva già esortato esercito e polizia a svolgere sino in fondo il «sacro dovere di combattere il terrorismo». D’altronde quando era al potere Ennahda, ideologicamente vicino ai Fratelli Musulmani, mise al bando il gruppo salafita Ansar al Sharia, proclamandolo un movimento terroristico.

 

La linea del pugno di ferro che vede assieme in questi giorni laici e una parte degli islamisti, è una risposta scontata e, più di tutto, socialmente e politicamente inadeguata ad affrontare il problema della crescita del radicalismo religioso in un Paese che ha visto negli ultimi anni almeno tremila dei suoi cittadini partire per Siria, Iraq e Libia e aderire al Fronte al Nusra (al Qaeda) e allo Stato Islamico. L’inasprimento delle misure di sicurezza dopo la strage al Museo del Bardo dello scorso marzo non ha certo impedito il massacro di fine giugno. Nessuno potrà prevenire solo con misure di sicurezza più rigide nuovi possibili attacchi terroristici, specie se a compiere queste azioni sono individui disposti anche a morire. Non pochi in Tunisia pensano che negare diritti agli arrestati, limitare le libertà ed estendere la legislazione di sicurezza e la repressione, darà più munizioni alla propaganda e al reclutamento svolto dall’Isis e da altre organizzazioni jihadiste. I centri per i diritti umani denunciano l’uso della violenza e delle torture nelle stazioni di polizia e un maggiore impiego della forza potrebbe avere conseguenze devastanti in un Paese che non ha risolto i suoi gravi problemi economici e ridotto la disoccupazione giovanile, i veri nodi che sono a monte della crisi tunisina e rafforzano i ranghi dei gruppi estremisti.

 

La tentazione delle autorità, resa ancora più forte grazie alla reintroduzione dello stato d’emergenza, potrebbe essere quella di mettere tutti i movimenti islamisti sullo stesso piano, quelli che fanno predicazione pacifica e quelli che invece sollecitano il “combattimento”. Politiche repressive che, come in Egitto, trovano ora un consenso crescente in segmenti importanti dell’opinione pubblica, spiegava qualche giorno fa la ricercatrice Amna Guellali, di Human Right Watch. I danni in ogni caso si sono già visti. La decisione di Ennahda di colpire Ansar al Sharia ha reso più popolare questo movimento tra non pochi giovani tunisini, convinti più di prima di dovere costruire un fronte islamico unito, più radicale, per fronteggiare l’attacco dello Stato laico.