Un sussulto d’interesse per la Tunisia va manifestandosi da qualche tempo in alcuni ambienti italiani e sul versante dell’Unione europea. Il 25 febbraio scorso, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione per l’aumento delle quote d’esportazione dell’olio d’oliva tunisino verso il mercato dell’Unione europea: «Al fine di sostenere la ripresa della Tunisia dall’attuale periodo di difficoltà». Un altro indizio è costituito dall’attenzione, alquanto tardiva, da parte di taluni ambienti accademici italiani: promotori di qualche convegno, con la presenza dell’ambasciatore tunisino e di alcuni relatori che mai si sono pronunciati pubblicamente in favore dell’insurrezione popolare, né contro gli omicidi politici e i tanti episodi di grave repressione che hanno punteggiato e punteggiano la «transizione democratica». Ricordo che la nuova legge anti-terrorismo (che ha ripristinato la pena di morte) e lo stato di emergenza, dopo i sanguinosi attentati jihadisti, hanno innescato una fase ancor più dura, con attacchi frequenti ai diritti e alle libertà civili.

Per tornare al primo esempio: per niente sicuro è che quella misura favorirà la ripresa dell’economia tunisina e che contribuirà a sollevare la condizione delle masse di diseredati. E’ certo, invece, che concorrerà ad aggravare la crisi dei piccoli produttori del Sud d’Italia, favorendo quei marchi «italiani» che in realtà appartengono a multinazionali.

Non solo: probabilmente essa fa parte della strategia volta a blandire le autorità tunisine, al fine di piegarne l’ostilità dichiarata contro la guerra in Libia. Infatti, tanto il ministro della Difesa nazionale, Farhat Horchani, quanto il presidente della Repubblica, Béji Caid Essebsi, hanno asserito più volte che mai la Tunisia interverrà militarmente nel paese confinante. E tuttavia già ora un pool di esperti, statunitensi e tedeschi, è sul terreno tunisino per approntare un sistema di sorveglianza elettronica lungo la barriera di sabbia al confine libico. L’ostilità, almeno dichiarata, contro la nuova guerra «neo-neocoloniale», ha ragioni più che fondate. Anzitutto, la guerra intensificherà ancor di più il contrabbando di armi e l’infiltrazione di terroristi attraverso la frontiera con la Libia. Inoltre, secondo la previsione dell’economista Radhi Meddeb, se nel 2011, con l’inizio del caos libico, si riversò in Tunisia più di un milione di rifugiati, l’intervento militare ne provocherà un afflusso doppio. Quel che si teme è che un esodo così massiccio, e simultaneo, avrà ripercussioni economiche assai pesanti e aggraverà la recessione che affligge il paese.

E non solo: il rischio assai concreto è, per citare il giornalista Iklas Latif (www.businessnews.com), quello della destabilizzazione dell’intera regione e quindi di «una profonda riconfigurazione geopolitica».

Non è affatto sicuro, invece, che il governo tunisino, il quale si vanta della sua stretta alleanza con gli Usa, resisterà alle pressioni. Non è certo costituito da valorosi antimperialisti. Ricordo che l’attuale premier, Habib Essid, è stato sottosegretario del ministero dell’Interno nell’era di Ben Ali. Inoltre, come ho scritto più volte, l’ex partito unico è tuttora ben insediato anche in sistemi finanziari e reti mediatiche, soprattutto negli apparati di sicurezza e in gangli del ministero dell’Interno. Sicché la criminalizzazione della conflittualità sociale spontanea – tuttora assai viva, anzi decisamente in ascesa –, la repressione violenta delle manifestazioni, la tortura dei fermati e degli incarcerati continuano come se niente fosse cambiato. D’altro canto, i governi che si sono succeduti dopo la fuga di Ben Ali, tutti d’ispirazione neoliberista, mai, neppure in tempi meno difficili, hanno affrontato di petto problemi quali la disoccupazione incalzante, le drammatiche disparità regionali, le sacche di miseria abissale. Fingendo così d’ignorare che, se il terrorismo jihadista è anzitutto il prodotto delle guerre esportate dall’Occidente, a costituirne il brodo di coltura è l’irrisolta questione economico-sociale.

A mostrarne la drammaticità vi sono dati che non è enfatico definire sconvolgenti. Secondo il recente rapporto annuale dell’Osservatorio sociale tunisino, espressione del Forum tunisino dei diritti sociali (Ftdes), fra il 2014 e il 2015 il numero di suicidi e di tentati suicidi è aumentato del 170,4%. Impressionante è anche la cifra relativa a quelli per fuoco, che ne sono, e per eccellenza, la forma più pubblica, dimostrativa, di protesta: nel 2015 a farsi torce umane sono state ben 105 persone, in maggioranza appartenenti alla fascia d’età tra i 16 e i 35 anni. Il che conferma che in Tunisia il suicidio per fuoco non è stata solo la «scintilla» che ha acceso l’insurrezione popolare; è anche una forma – strutturale quanto l’ingiustizia sociale – di rivolta contro l’umiliazione e la morte sociali, e di estrema rivendicazione di dignità.

Nonostante un quadro così drammatico, aggravato dalla minaccia quotidiana del terrorismo jihadista, la Tunisia resta un paese dinamico, con una conflittualità sociale permanente, un livello alto di attivismo sociale e politico, una vivacità culturale notevole. La guerra neo-neocoloniale, ancor più se condotta con la sua partecipazione, potrebbe annientare tutto questo e precipitarla nel baratro.